Un'anima a pezzi
di Alberto Ferrari
Una delle convinzioni comuni a tutte le fedi religiose e a molte filosofie è quella dell’esistenza di un’anima immortale. Ciò che spesso manca nel discorso sull’anima, però, è la cosa più semplice, ovvero la sua pura definizione, e prima di discutere dell’esistenza dell’anima è assolutamente necessario definirla.
Una buona “definizione” di un oggetto può essere una descrizione altamente accurata, tale da impedire qualsiasi confusione. Se vogliamo definire “il dado da gioco”, per esempio, lo descriviamo come un piccolo oggetto di forma cubica che porta su ogni faccia un numero da uno a sei, e viene usato per scegliere i numeri in maniera pseudo aleatoria.
Se proviamo a usare lo stesso metodo di definizione per parlare dell’anima ci troviamo di fronte a palesi difficoltà, poiché non è facile individuarne gli attributi caratteristici ed identificativi senza correre il rischio di confonderla con altri termini più familiari, come “personalità”, “carattere”, “ragione”, eccetera.
Di certo l’anima ha alcune caratteristiche note: è immateriale, o per meglio dire, è un oggetto metafisico, non percepibile con i sensi; è immortale, ovvero non si dissolve col corpo; è libera, ovvero non deve obbedire al principio di causalità; è semplice, ovvero unica e indivisibile.
Quindi un buon approccio per “trovare” l’anima e descriverne le caratteristiche identificative potrebbe essere quello di procedere per esclusione, ovvero eliminando dal mio campo di ricerca ciò che non risponde ad una di queste esigenze fondamentali fino a quando non rimanga esclusivamente ciò che cerchiamo.
Cominciamo dunque a cercare l’anima.
Sicuramente essa si interfaccia in un qualche modo con il corpo; tuttavia il corpo non può semplicemente essere considerato come l’ “hardware” dell’anima, o un semplice supporto per una serie di istruzioni, altrimenti l’anima sarebbe dipendente dal corpo allo stesso modo in cui il software dipende dall’hardware. Diciamo dunque che questa “anima” interagisce con esso in maniera facoltativa, ma è un’entità propria, seppur con un diverso grado di esistenza.
Un primo test per individuare l’anima, quindi, è agire sul corpo: ciò che non si modifica modificando il corpo potrebbe essere l’anima.
Facciamo un esperimento mentale: prendiamo un volontario dotato di spirito di sacrificio ed amore per la scienza, oppure un prete della Fraternità Sacerdotale San Pio X, e iniziamo a privare il suo corpo di questa o quella capacità. Vediamo che succede.
La prima cosa di cui ci rendiamo conto è che amputare un arto o un organo non vitale non ha conseguenze. In alcuni casi, si può perfino verificare la sindrome dell’arto fantasma, per cui il nostro soggetto magari sente di aver male alla mano … ma gli manca tutto il braccio! Tagliando il braccio non abbiamo toccato di certo l’immagine virtuale del braccio, che è ancora intatta. Che quello che è rimasto sia “l’anima del braccio”?
Se vogliamo testare questa ipotesi dobbiamo considerare che in realtà nel solo Sistema Nervoso Centrale (SNC) è contenuta una specie di “immagine virtuale” di tutto il corpo, quindi il passo successivo è andare ad agire lì. Prendiamo il cervello del nostro pretino e iniziamo a toglierne alcune parti, mantenendolo ben vivo e cosciente in modo da poter verificare le conseguenze del nostro esperimento.
Potremmo, per cominciare, recidere i nervi ottico, vestibolo-cocleare, olfattivo e i nervi cranici legati alla percezione del gusto.
Vedremo subito una cosa interessante: il soggetto, sebbene cieco, sa ancora cosa sono i colori, perché prima li vedeva. Un discorso analogo vale anche per i suoni, i sapori, gli odori. Abbiamo distrutto la percezione, che è già di per sé un processo cognitivo, e quindi una parte delle capacità di analisi del soggetto è andata perduta. Tuttavia ciò che resta, per esempio il concetto stesso di “colore”, potrebbe essere qualcosa di connesso con l’ “anima”. È presto verificato: se è anima, non potremo in alcun modo modificarlo.
Andiamo quindi a danneggiare la corteccia visiva del buon volontario (o sacerdote). Se andiamo ad agire selettivamente sull’area V8, distruggeremo in lui la nozione stessa di colore, persino i suoi sogni saranno in bianco e nero. Analogamente, possiamo distruggere la nozione di movimento, di forma, di spazio e di tempo, di suono, etc.
L’individuo, adesso, è privo della nozione stessa di mondo; se esiste qualcosa o qualcuno al di fuori di lui, egli può averne solo una pseudo-conoscenza razionale, come noi potremmo avere la pseudoconoscenza di una quinta dimensione. Tuttavia, egli potrebbe ancora possedere un “senso interno”, per così dire. Non sarebbe morto né necessariamente in stato comatoso.
Ma ancora c’è molto da fare. Mettiamo indietro le lancette dell’orologio, e invece di toccare le aree sensitive procediamo ad una rimozione totale della amigdale, centro di controllo della vita emotiva. Non c’è da soffermarsi molto sugli effetti collaterali di questo trattamento (come ipersessualità ed iperoralità), ma possiamo dire che il nostro soggetto adesso è incapace di provare emozioni come l’amore, la paura, la rabbia, eccetera eccetera. È ben noto quale influenza abbiano le emozioni sul nostro comportamento, e l’importanza del loro effetto è dimostrata da numerosi test scientifici. Quindi, toccando le amigdale, o abbiamo distrutto l’anima, o la abbiamo divisa in più parti (togliendole le emozioni), oppure ancora dobbiamo riconoscere che esiste qualcosa di esterno all’anima in grado di dominarne il comportamento (questa soluzione introdurrebbe notevoli problematiche per quanto riguarda il libero arbitrio umano).
Ovviamente, le decisioni umane non sono prese dall’amigdala, ma con l’ausilio dell’amigdala. Gli stati emotivi di cui l’amigdala è mediatore sono utilizzati, insieme a tutte le altre informazioni interne o esterne, per formulare giudizi sulla cui base siano prodotte azioni. Questo procedimento si verifica al livello della corteccia prefrontale e orbito frontale. Pazienti lesionati in questa zona perdono in misura più o meno pesante la capacità di dare giudizi coerenti su fatti o situazioni, diventano irresponsabili e incapaci di capire le conseguenze delle proprie azioni. A seconda di quanto è severa l’ingiuria, tutte le capacità intellettive sono compromesse in forma più o meno grave; quando si dice “perdere la ragione”.
Stavolta, invece di rimuovere le amigdale, distruggiamo completamente la corteccia prefrontale e orbitofrontale, privando il paziente della capacità di giudizio. Qualunque tribunale riconoscerebbe l’incapacità di intendere e di volere a una persona in questo stato, perché in effetti non sarebbe responsabile delle proprie azioni. Non è tuttavia uno stato di morte, quindi ancora una volta l’anima non siamo riusciti a toccarla. È la corteccia prefrontale che prende le decisioni, però … allora non è l’anima a farlo?
Ora, se rifacessimo tutti questi esperimenti non più uno alla volta, ma insieme, nessuno avrebbe timore di dire che abbiamo ottenuto la morte cerebrale. Dunque o tutte queste cose insieme formavano l’anima, è dunque essa è divisibile in più parti, oppure l’anima permane nonostante tutto, ma evidentemente si tratta di un qualcosa che non prova emozioni, non ragiona, non sente, non decide, non agisce (tutte capacità in qualche modo legate al corpo); il che mi mette un po’ in difficoltà, perché mi obbligherebbe a pensare che la parte più preziosa ed importante di me dovrebbe essere meno intelligente di una patata.
Oppure ancora l’anima non esiste.
Qual è la soluzione preferibile?
La migliore è, come al solito, la strategia dello struzzo; ovvero ignorare sistematicamente il problema. Una valida alternativa è scegliere il meno peggio: alla fin fine, un’anima immortale è meglio di niente, quindi va bene anche un’anima paragonabile a quella di una patata. O anche un’anima a pezzi …
OBIEZIONI
di Davide Gorga
e
RISPOSTE
dell'Autore
Davide Gorga: Il modello da te proposto ha in sé un assurdo. Infatti se intendiamo per processo cognitivo l'insieme di percezioni e percipiente dobbiamo ammettere questi ultimi quali omogenei. Procediamo ad un esperimento ideale:
È possibile ipotizzare che, una volta che io sia morto, un abilissimo scienziato riesca a sintetizzare nuovamente tutto il mio corpo, -incluso naturalmente il sistema nervoso centrale, dal primo all'ultimo neurone- di modo da ottenerne una copia perfetta fin nei più minuti dettagli; in altre parole, un clone. Anzi, più di un clone, poiché questo organismo, essendo identico al mio corpo, dovrebbe avere immagazzinate nelle cellule cerebrali tutte le mie esperienze, i miei ricordi; tutto quanto è contenuto nel mio cervello, in quanto ogni singola cellula del nuovo organismo sarebbe identica a quella corrispondente del mio corpo, dal primo all'ultimo atomo. A questo punto, potrei io affermare di essere risorto?
Vediamo.
Assumiamo come vera la tesi secondo la quale, una volta rigenerata la mia struttura fenomenica, io sarei risorto, ossia il mio centro di percettività si troverebbe nella nuova (ma identica alla vecchia) struttura.
Ora supponiamo che l'abile scienziato abbia creato non una, ma due strutture materiali identiche alla mia, e, quindi, identiche fra loro.
In tal caso, dove si situerebbe il mio centro di percettività? In quale corpo io vivo? O, se si preferisce, quale corpo "sono"? Se mi trovo, quale centro di percettività, nella prima struttura, allora posso uccidere la seconda; posso anche farne una autopsia. Il che significa che posso prenderne coscienza come di un oggetto esterno.
Se invece io mi trovo nella seconda (o "sono" la seconda), significa che prenderò coscienza delle sensazioni (impulsi nervosi) di essa, e non della prima; ossia se la seconda struttura materiale ha davanti agli occhi un quadro di Monet, Io vedrò: "Impressione: Sole nascente", anche se davanti agli occhi della prima si trova la fotografia di un bel paesaggio alpino.
Volendo poi ammettere, in linea del tutto teorica, che tra due strutture materiali siffatte esista una fortissima telepatia, resterebbe sempre il fatto che Io vedrei il quadro di Monet, ed esperirei i pensieri dell'altra struttura materiale - quand'anche si trattasse di sensazioni - indirettamente, cioè come di oggetti esterni.
Questo significa che il mio centro di percettività, quand'anche fosse presente in una delle strutture fenomeniche, prenderebbe coscienza dell'altra da un punto di vista esterno.
Ma, se una determinata struttura fenomenica genera il mio centro di percettività, esistendo più strutture identiche, tutte devono generarlo, il che è assurdo.
Nota: anche qui utilizzo il termine "centro di percettività" - se vuoi puoi sostituirlo con il termine "Io", "psiche", o ciò che preferisci. Rimane per certo il fatto che io e te abbiamo sensazioni diverse. Tu vedi - in questo istante - ciò che ti circonda, io vedo lo schermo del mio computer...
PS - La visione funzionalistica pura ha in sé un altro assurdo ancora più grande. Poiché chi prende coscienza dei "dipartimenti funzionali del cervello" è a sua volta un essere umano (o se vuoi un altro cervello).
Ora, se tutto il fenomeno è deterministico, come puoi introdurvi un criterio di scelta tra asserzioni vere e false?
Perché se puoi significa che non tutto il fenomeno è deterministico (oppure lo è interamente ma la libertà si esplica a livello del noumeno - v. Kant e la soluzione non soddisfa neanche me). Altrimenti non puoi.
Sceglierai come "vera" la conclusione che il tuo cervello è deterministicamente predisposto ad accettare come tale.
Il che sottrae filosofia e scienza al criterio di veridicità. Analiticamente, lo scetticismo è incluso nel determinismo.
Precisazione: ho scritto: «una volta che io sia morto, un abilissimo scienziato riesca a sintetizzare nuovamente tutto il mio corpo, -incluso naturalmente il sistema nervoso centrale, dal primo all'ultimo neurone- di modo da ottenerne una copia perfetta fin nei più minuti dettagli; in altre parole, un clone. Anzi, più di un clone»
Nel SNC rimangono "stampate" TUTTE le informazioni mnemoniche (ricordi) e sensoriali non ché i riflessi automatici e MOLTO altro, incluso quanto vi è di APPRESO.
Nessuno ha mai scritto di DNA che è tutt'altra cosa.
Alberto Ferrari: Assurdo? Perché? Stai presupponendo ciò che vorresti dimostrare, e cioè che la nozione di "centro di percettività" abbia un senso. Puoi produrre una o più strutture percipienti simili a te, in teoria, e in questo non vi è alcun controsenso. Come se non bastasse, stai presupponendo anche, nel tuo esperimento mentale, che "l'identità" sia una realtà possibile, mentre vi è serio motivo di dubitare anche solo della possibilità teorica, in questo universo, di enti "identici".
L'altro presunto paradosso mi sfugge, onestamente. Tanto per cominciare stiamo prescindendo dai fenomeni stocastici, ed è una lacuna gravissima. Inoltre non vedo perché mai la "scelta" dovrebbe essere alla base del criterio di veridicità... ma ci torniamo dopo, ora purtroppo ho lezione.
Davide Gorga: Evidentemente mi sono espresso male. O meglio: stiamo scrivendo le stesse cose senza rendercene conto. Ti pongo alcuni punti fissi in modo da poterci chiarire meglio:
1) «Esperimento ideale»: con questo termine si indica un procedimento tecnicamente irrealizzabile e SOLO CONCETTUALMENTE POSSIBILE. Sono noti ad es. gli "esperimenti ideali" di Galilei sulla caduta dei gravi. Esperimento ideale non implica la fattibilità dello stesso. Solo la sua possibilità concettuale.
2) SNC = Sistema nervoso centrale. Nell'«esperimento ideale» è presupposto che OGNI SINGOLO ELETTRONE di una struttura deve trovarsi nella stessa identica posizione della struttura di origine. Ciò è tecnicamente impossibile (ovviamente) ma l'identità (fatta salva l'indeterminazione di Heisenberg - e non solo - vedi oltre) dev'essere il punto focale dell'argomentazione.
3) Trattiamo del corpo di un individuo adulto. Quindi la sua struttura NON DIPENDE solo dal DNA ma da tutte le esperienze vissute (es. amputazione di un braccio).
4) Enti "identici" nel senso newtoniano/galileiano del termine. È questo ciò che intendo e so bene che in questo campo la fisica dei quanti introduce un limite. Tale limite tuttavia non influisce sull'"esperimento ideale" SE poniamo il fenomeno quale deterministico (in contrapposizione all'Interpretazione di Copenaghen).
5) Il criterio di veridicità di un'asserzione riposa sull'assunzione di verità/falsità di una proposizione. Ad esempio, la proposizione "I triangoli equilateri sono triangoli" è indubitabilmente vera. È analiticamente vera. Tuttavia, il fatto che gli esseri umani la accolgano come vera dipende a) da una predisposizione cerebrale a considerare tale predicato vero o b) da una "scelta" (teoria delle opzioni) operata su base di una logica non determinata dal fenomeno materiale?
6) La coscienza da parte di u essere umano (o di un cervello, se vuoi) di fenomeni quali, ad esempio e sopratutto, di altri esseri umani (e di altri cervelli) introduce un limite gnoseologico. Non vado oltre perché l'argomento è molto delicato e abbiamo già a sufficienza di cui discutere. Inoltre, se tu hai lezione, io ho appena finito il mio turno di servizio e quindi temo di scrivere inesattezze... Avremo tempo (se la cosa t'interesserà) di esaminare anche questo SECONDO argomento in futuro.
Alberto Ferrari: Dunque, ho ben presente il concetto di esperimento ideale, ma il fatto che un esperimenti sia ideale non permette di certo di trascurare il rigore. Se ci sono dei limiti imposti dalla quantistica, non siamo autorizzati a pensare "come se non ci fossero". Ci sono! : )
Due corpi identici come intendi tu, nel senso che hanno ogni singolo elettrone allo stesso posto (e dobbiamo anche chiarire in che senso sia "allo stesso posto"), per motivi quantistici andrebbero incontro ad un differenziamento immediato, dovuto al semplice fatto che sono due strutture, e non una sola. Per esser effettivamente identici, dovrebbero occupare anche la stessa porzione di spazio, ma in quel caso non avremmo due strutture ma bensì una sola. E in ogni caso, anche l'identità di una struttura A con se stessa vale solo all'istante arbitrario t; non varrebbe già più l'identità di A(t) con A(t+1). Un esperimento come quello che hai proposto non ci direbbe molto, perché in fondo io sono Alberto(t), ma non lo sono già più, adesso sono Alberto(t+1), e ora Alberto(t+2).
Quanto al criterio di veridicità, fermo restando che per me la verità è pura prassi, io abbraccio la teoria della "predisposizione cerebrale". Non per questo credo che valga di meno perché ciò che da un punto di vista esterno è deterministico per me non PUO' esserlo; allo stesso modo di come un batterio si comporta in modo approssimativamente deterministico dal mio punto di vista, ma dal punto di vista del batterio non è di certo così.
Quanto al limite gnoseologico, concordo. Capire come è possibile che siamo consci potrebbe essere come se il batterio capisse la chemiotassi... ma anche la logica fa progressi, chi lo sa. Forse un giorno...
Davide Gorga: Tu poni quale cruciale il fattore spazio / tempo (anzi, soprattutto quello spaziale) come determinanti del fenomeno. In questo caso hai ragione. Una ciotola di legno sul pavimento di casa mia non è uguale ad una ciotola di legno di stesse misure su un pavimento a Tokyo.
Esiste quindi un fondamento di UNICITÀ del singolo fenomeno.
Questo implica una irripetibilità del fenomeno e, quindi, un limite intrinseco nella gestione delle conoscenze empiriche trattando di classi di fenomeni o di classi di enti. Proprio per i motivi che tu stesso citi non possono esistere, neppure a livello fenomenico, due strutture materiali assolutamente identiche.
Allo stesso modo, anche volendo far dipendere attività cognitive, psichiche, neurali, unicamente da enti fenomenici, è impossibile ch'esistano due strutture materiali identiche ed in grado di funzionare in maniera identica.
Avevo escluso la quantistica per semplificare il discorso. Tu l'hai reintrodotta (legittimamente) ed abbiamo ottenuto comunque la dimostrazione, sia pur per altra via, del fatto che NON POSSONO ESISTERE STRUTTURE FENOMENICHE IDENTICHE e, quindi, neppure processi cognitivi, percezioni, attività neurali assolutamente identici.
Dunque il fatto che Alberto veda le pareti della sua stanza, che Davide veda una fotografia in bianco e nero, sono processi IRRIPETIBILI in sé stessi, in quanto, anche a livello fenomenico ed anche a livello massimo d'astrazione (esperimento ideale) non potranno ripresentarsi con le stesse caratteristiche.
A questo punto il problema del criterio di veridicità è ancora più acuto.
Infatti, proprio perché ogni essere umano DEVE essere differente da un altro (anche a livello massimo d'astrazione) se il suo giudizio è dettato dalla sua predisposizione cerebrale ad assumere come veri i giudizi analitici (ad es.) non si vedrebbe per quale motivo la frase "I triangoli equilateri sono triangoli" dovrebbe essere più vera della frase "I triangoli equilateri sono quadrati", poiché nel momento in cui io enuncio in buona fede la seconda proposizione non faccio altro che assecondare un mio schema cerebrale.
Quindi, se il mio schema cerebrale m'impone di considerare i triangoli equilateri alla stregua dei quadrati, non c'è modo di considerare falsa tale proposizione.
Perché non possiamo dire quale struttura cerebrale sia più vicina al vero delle altre.
Viene meno il principio di veridicità (anche nelle scienze).
Tu introduci un problema di prospettiva (ossia il fatto che un fenomeno osservato dall'esterno quale deterministico non rende deterministico il tuo pensiero). Tuttavia, dimentichi che anche il tuo pensiero, il tuo cervello, il tuo corpo, dal mio punto di vista, sono sostanzialmente deterministici.
E quindi anche in questo caso il criterio di veridicità viene meno.
Per ora mi fermo qui (anche perché vedo che hai intuito il problema gnoseologico sul quale ritorneremo, se lo vorrai), ti saluto e tutto sommato mi fa piacere che questo dialogo lasci il tempo necessario per meditare le parole dell'altro...
Alberto Ferrari: Effettivamente se salta un circuito neurale, una persona può facilmente non vedere contraddizione nell'idea che una figura sia un quadrato e contemporaneamente abbia tre lati. Infatti è stato proprio lo studio di fenomeni di questo tipo a spingermi a riconsiderare le mie posizioni un tempo fermamente kantiane. Attenzione, però, perché la meravigliosa rivoluzione copernicana di Kant resta ancora attuale, così come la sua ermeneutica della finitudine; ciò che viene meno è l'universalità di quelle forme pure a priori che credeva di aver individuato, e tramite le quali voleva fondare un criterio di verità. Dunque ben vengano triangoli con quattro lati, per qualcuno; anzi, in certe matematiche può essere la regola!
Ovviamente, su queste basi, il criterio di verità come è stata sempre intesa in filosofia deve venir meno, ed esser sostituito con una verità che non è più ne assoluta né relativa, ma "approssimata" e funzionale ad una prassi. Questa è l'idea di verità che abbraccio io.
Passando al problema della prospettiva, mi spiego meglio: supponiamo che esistano cinque dimensioni. Ora noi possiamo sapere che un quinta dimensione c'è, ma avremmo "coscienza" solo delle quattro che possiamo percepire (tre dello spazio + il tempo).
Ora, se io guardo me stesso dall'esterno, come fai tu, supero il limite imposto dalla coscienza di sé; non posso esser cosciente di essere deterministico (sarebbe una contradictio in terminis), ma posso esser cosciente del fatto che gli altri lo siano. Eppure, pur avendo superato il limite di coscienza, mi devo scontrare adesso con un limite cognitivo: per considerare effettivamente il mio comportamento come deterministico, e quindi diventare scettico verso l'attribuzione dei valori di verità da parte del mio cervello, dovrei poter studiare me stesso non solo dall'esterno (dal "di fuori"), ma dal di "sopra", ovvero usando potenzialità intellettive superumane. Un sistema con tali capacità computazionali non esiste, quindi a conti fatti non possiamo trattare l'essere umano come un ente deterministico. E se facessimo un esperimento ideale, con una macchina talmente potente da poter essere considerata "superumana", a quel punto avremmo spostato il problema al livello di quella macchina, che pur essendo deterministica, lo sarebbe solo da un punto di vista ancora più superumano.
Davide Gorga: pertanto il concetto di «veridicità» di una proposizione è sostituito da quello di «verità operativa» (o funzionale) mirante quindi a fini concreti ed empirici.
Sempre coerentemente con tale presupposto, tuttavia, il fatto che tu sia cosciente d'esser deterministico o meno non è più significativo ai fini della questione. Tu sei deterministico e gli altri si rendono conto di ciò. Tanto basta per definire la struttura fenomenica (o materiale) di Alberto, Davide e via dicendo quale deterministica.
Quindi, a conti fatti, l'essere umano può benissimo essere trattato come struttura deterministica.
E questo ci porta ad una considerazione di più ampia portata.
Se il sensibile è deterministico, devono esistere leggi che esprimono il suo determinismo. Ma allora io devo conoscere ed esprimere queste leggi fisiche, e non solo per avere la possibile prova empirica delle mie ipotesi, ma anche per dare forma di concetti ad un’ipotesi che altrimenti resterebbe vuota.
Supponiamo di avere enunciato un numero sufficiente di leggi. Qual è la validità che si può attribuire loro? Poiché i miei processi psichici, così come i miei mezzi espressivi, sono enti fenomenici, e quindi per ipotesi deterministici, ne risulta che l’elaborazione di una teoria fisica è determinata da nessi causali deterministici, e che il pensiero di una persona non potrebbe essere diverso da quello che è. Per cui, fra due persone che affermano tesi diverse contraddittorie non c’è modo di operare una scelta di validità, in quanto non è detto che un ente fenomenico elabori teorie più valide di un altro: ognuno è obbligato a riconoscere come vera una determinata tesi in base agli eventi fisici che determinano la scelta.
Il «limite cognitivo» di cui scrivi era esattamente il punto cui volevo giungere sin da prima. Non è necessario postulare un ente computazionale con facoltà superumane per studiare enti deterministici.
È invece necessario postulare un ente indeterministico (o parzialmente indeterministico) libero di scegliere tra una tesi analiticamente vera (es. un triangolo ottuso è un triangolo) ed una palesemente falsa (es. un triangolo ottuso è una circonferenza).
Tale limitazione al determinismo meccanicista s'impone sia che il giudizio di veridicità scaturisca da una struttura fenomenica materiale sia che possa essere ricondotto al dualismo fenomeno / noumeno kantiano.
Alberto Ferrari: Cominciamo ad arrivare ad un punto di incontro, sembra : )
No, non puoi trattarmi come un ente deterministico, perché tu sei deterministico a tua volta. Per potermi trattare come ente deterministico dovresti essere tu stesso un ente non deterministico, oppure essere un ente deterministico ma con capacità computazionali superiori.
Quando invece ci troviamo di fronte a due persone che espongono tesi diverse e contraddittorie, abbiamo due scenari differenti a seconda della prospettiva che scegliamo:
1) Siamo un ente esterno dotato di capacità computazionali superiori: Quello che vediamo sono due enti deterministici che mantengono un equilibrio. Dal nostro punto di vista, la verità operativa sarà solo una delle due.
2) Siamo uno dei due enti: allora siamo di fronte ad un altro ente che, rispetto a noi, ha il medesimo numero di “gradi di libertà”, quindi ha il nostro stesso livello di “libero” arbitrio.
È il nostro caso.
Chi ha “ragione” dei due?
Da un lato, consideriamo che come verità operativa è spesso sufficiente quella relativa al punto di vista interno. Per mandare un satellite in orbita, ad esempio, non è necessario sapere che la Terra ruota intorno al sole; possiamo tranquillamente fingere che essa sia ferma e sia il sole a girarle intorno (il che, relativamente alla Terra, è anche vero). Per applicazioni più complesse, dobbiamo fare i conti con l’oste, ovvero con un livello di verità superiore (per intenderci, quello che vedrebbe l’ente superiore). Chi vi si avvicina di più avrà espresso una verità più valida. Come si comprende chi vi si è avvicinato di più? Perché la sua verità sarà operativamente più valida, ovvero avrà maggiore potere predittivo ed esecutivo.
Per schematizzarlo, l’analogia col sistema solare va bene:
-Punto di vista della Terra -> La Terra è ferma e tutto gira intorno. Per spostamenti sulla superficie terrestre o nell’atmosfera va bene.
- Punto di vista del sistema solare -> Il sole è al centro, i pianeti girano intorno (Terra compresa). Con questo sistema spieghiamo un maggior numero di fenomeni, e possiamo inviare sonde al di fuori del sistema Terra.
- Punto di vista posto all’esterno del Sistema Solare -> Il sole e i pianeti rappresentano un sistema in equilibrio che si sposta rapidamente all’interno della galassia. Un numero ancora maggiore di fenomeni e spiegato e previsto.
Possiamo procedere oltre e spostare il punto di vista sempre più “fuori e sopra”.
Perché farlo? Perché è utile, certo. E anche perché è bello. Copernico, dopotutto, formulò la sua teoria perché la musica delle sfere celesti fosse più bella …
Ah, notiamo come, anche nell'analogia col Sistema solare, ad ogni salto di punto di vista corrisponde un salto di capacità computazionali, e un'interpretazione più raffinata dai dati sensoriali.
Davide Gorga: Vero, cominciamo a trovare un punto d'incontro. In primo luogo poiché, se assumiamo che gli esseri umani siano enti deterministici, ci troviamo tuttavia ad ammettere che Davide non è legittimato a trattare Alberto come un ente deterministico in quanto Davide stesso è vincolato dal determinismo. Osservazione corretta.
In secondo luogo, poiché nell'esempio del sistema solare poc'anzi da te riportato, l'«interpretazione più raffinata dei dati sensoriali» trova sua conferma nell'esperienza (ossia nel riuscire a portare a termine un insieme di calcoli che descrivano al meglio fenomeni astronomici). Quindi, per quanto raffinata sia, è pur sempre una «verità operativa». Perfettamente legittima intellettualmente e utile pragmaticamente - ma con la limitazione dell'operatività.
Abbiamo quindi stabilito:
1) che un essere umano non può trattarne un altro come ente deterministico se anch'egli è deterministico (es. Davide e Alberto);
2) che la veridicità di un'affermazione sul fenomeno è operativa, ossia la sua validità è basata sul «potere predittivo» e descrittivo del fenomeno stesso (es. del sistema solare).
A questo punto occorre evidenziare che la validità intrinseca di un sistema logico non trova conferma in sé stessa ma nella sua applicazione pratica in termini di esecutività, predittività, descrittività. Pertanto, anche il sistema logico più raffinato, se prodotto da un ente deterministico, avrà i suoi limiti nel riscontro operativo della teoria. Ed avrà anche quale campo di applicazione ciò che è verificabile.
Per cui da quanto scritto si evince che non è lecito estendere a qualsiasi campo (ossia anche a quanto non è verificabile) tale logica.
E si evince anche che il determinismo del fenomeno (per quanto non più prettamente meccanicista) risulta comunque un postulato sul quale si costruisce un sistema logico utile all'operatività.
Mi fermo qui per il momento - poiché se su questi punti siamo d'accordo allora vi sarebbe molto altro da aggiungere sull'utilizzo dei sistemi logici in ambiti non verificabili (o in cui cambia il concetto stesso di verificabilità) - argomento su cui mi riprometto di tornare.
Alberto Ferrari: Sì, su questi punti siamo d'accordo. Ovviamente è vero che estendere tale logica a campi non verificabili non è legittimo.
Ad ogni modo, nel mio rigidissimo evidenzialismo, escludo completamente dalla mia filosofia ogni campo in cui non vi siano operatività, predittività, descrittività.
Tuttavia, ove non ci sia spazio per la prassi, ve n'è ancora per l'estetica. Se un qualcosa non è utile o descrittivo, può ancora essere "bello", e ciò ne legittimerebbe la sopravvivenza. Ma effettivamente qui andiamo un po' fuori dal discorso : )
Davide Gorga: Traiamo dunque le conclusioni dei due punti che abbiamo individuato:
- ) La veridicità di un'affermazione sul fenomeno è sempre operativa,
pertanto, «È sbagliato pensare che lo scopo della fisica sia di scoprire come è fatta la natura. La fisica riguarda ciò che noi possiamo dire circa la natura» (Niels Bohr), per cui la realtà fisica dipenderà sempre e comunque dalle nostre osservazioni. In tal senso, il postulato del determinismo causale è utile (e legittimo) ai fini della predittività, operatività e descrittività del fenomeno che, a sua volta, si mostrerà "sostanzialmente" deterministico.
Ossia, l'indagine sulla "realtà fisica" dimostrerà un fenomeno deterministico partendo da un postulato (indimostrabile) deterministico - in quanto su di esso è stata basata la logica d'indagine fenomenica. Ripeto, tutto questo ha un valore ed un'utilità ma - anche in questo caso - ci ritroviamo di fronte ad un circolo per cui terminiamo col definire deterministico il fenomeno dopo averlo postulato tale.
Questo impone di ripensare il concetto stesso di "realtà fisica" (Bohr sostituì correttamente tale astrazione con il più concreto termine «fenomeno»).
L'indeterminismo ovviamente non può essere dimostrato in un fenomeno postulato deterministico se non per negazione. Oppure - seguendo sempre l'Interpretazione di Copenaghen - come costituente intrinseco in quanto ineliminabile proprio in quanto richiesto dai dati risultanti.
Tutti i tentativi d'invalidare tale interpretazione (come il "gatto di Schrödinger") risultano privi di senso (Vedi http://www.riflessioni.it/scienze/gatto-quantistico.htm).
- ) Se un essere umano non può trattarne un altro come deterministico o "sostanzialmente" deterministico ne deriva che postulare un ente con sempre maggiori "gradi di libertà" (cfr. più sotto) sposta semplicemente il problema del determinismo cognitivo a livelli più elevati,
pertanto il vero problema che tu affronti nel post iniziale procedendo per sottrazione delle facoltà trova fondamento nell'osservazione del fenomeno e pertanto su un'osservazione operativa del fenomeno stesso. Poniamo il caso (esperimento ideale) che Alberto sia in grado di vedere i percorsi neurali e tutte le connessioni necessarie a livello di SNC di Davide in modo da poter conoscere ciò che Davide è in grado di pensare, decidere, percepire; tal conoscenza rimane operativa e non descrive Davide ma come Davide si mostra all'osservazione.
Non solo; nel momento in cui Davide osserva una mucca che pascola su un prato Alberto può anche conoscere direttamente l'insieme dei processi mentali di Davide ma - ciò facendo - o diventa una "copia" di Davide stesso (ipotesi esclusa in precedenza anche senza scomodare il no-cloning) oppure ne prende coscienza come di un oggetto osservato - ossia come di fenomeno osservabile.
Ed è il fenomeno osservabile ciò che si può descrivere in termini di sistema nervoso, fenomeni fisiologici e fisici. La descrittività operativa è il limite intrinseco introdotto dal postulato del determinismo del fenomeno (sebbene non più meccanicista).
Il fenomeno osservabile quindi descrive la realtà cognitiva di Davide in termini operativi in forma assimilabile da un ente con processi cognitivi del tutto simili. Ma non potendo divenire "copia" di Davide stesso l'osservatore deve prendere coscienza di tale realtà cognitiva come di un oggetto esterno.
Cade quindi il principio di prospettiva interna - e la conoscenza è l'insieme dei fenomeni osservati appunto come fenomeni e non realtà noumeniche.
L'inconoscibilità dello stato mentale (prospettiva interna) di un altro essere umano ne discende conseguentemente. La descrizione dei fenomeni causali è frutto di prospettiva esterna all'ente osservato e nulla ci può dire sugli stessi fenomeni osservati da altra prospettiva (prospettiva interna).
Pertanto le osservazioni di fisiologia e psichiatria clinica descrivono un insieme di fenomeni così come osservati in una "prospettiva esterna" mentre il postulato fondamentale della definizione dell'anima è che la manifestazione fenomenica degli stati percettivi, cognitivi, decisionali, è irriducibile alla descrizione della manifestazione stessa.
Per usare un esempio brutale: un conto è vedere il film delle sensazioni visive di Davide, un altro vederle da sé stessi od immaginarle o sognarle.
E nessuno può sperimentare dall'esterno ciò che Davide sperimenta in prospettiva interna.
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Ciò che è andato in pezzi, in definitiva, è solo il metodo conoscitivo materialistico ed oggettivante il fenomeno: «Le nuove concezioni che sono sorte dalle esperienze fisiche quantistiche e dalla loro elaborazione teoretica significano la liquidazione dell'immagine materialistica del mondo che si era sviluppata nella scienza classica occidentale, derivate dalla filosofia materialistica greca» (Jordan).
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Alberto Ferrari: Comunque il principio è che una prospettiva esterna, in termini di approssimazione, sia più corretta di una interna.
Così come è più corretto guardare la Terra come un corpo che ruota intorno al sole, così ritengo sia più corretto affrontare l'essere umano come una macchina molto complessa, che è ciò che emerge dall'osservazione esterna.
Tutto questione di prospettiva, è chiaro... ciò non toglie, ad esempio, che, per certe applicazioni, la "prospettiva interna" possa venir comoda. Ma al momento questo aspetto non mi interessa.
Davide Gorga: Capisco. Rimane il fatto che concludere "L'anima non esiste" è arbitrario. È un'opinione. Proprio per i motivi che abbiamo elencato prima (proprio perché è esperibile in "prospettiva interna" - non la si può "cercare" dall'esterno come abbiamo visto - cfr. intervento precedente).
Certamente non è e NON sarà mai dimostrabile la sua esistenza - ma neppure il contrario.
Infine: la caratteristica dell'anima è d'essere condizione ineludibile dell'esperienza del fenomeno.
Tutto il resto (immortalità, unicità e via dicendo) non sono caratteristiche note ma attribuibili per fede, non certo per ragione.
PS - Ovviamente la "prospettiva esterna" è preferibile in medicina e nelle scienze biologiche in genere, anche questo è chiaro...
Alberto Ferrari: Sì, è un'opinione. A me viene difficile immaginare, sulla base dei dati che ho, che essa esista. E' ovviamente possibile credere che esista "noumenicamente", ma per me la dimensione noumenica non ha molto senso, quindi la escludo.
Davide Gorga: ...Tieni solo presente, però, che il fatto stesso che tu abbia dei dati è anch'esso un dato...
Alberto Ferrari: Datemi un dato, e vi solleverò il mondo! XD
Davide Gorga: PS - A proposito, mi ero dimenticato di scrivere che è stata una discussione interessante, Alberto.
Alberto Ferrari: Sì, lo è stata, ti ringrazio ;-)