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Lo cercava da sempre
di
Gioia Calcagnolo
Lo cercava da sempre.
Anche oggi, in questo freddo mattino d’inverno, stretta nel suo mantello di nebbia s’apprestava a farlo.
Aveva vagato lungo gli argini del fiume.
Un altro giorno aveva scandito il suo tempo, e la Notte si affrettava su di lui per abbracciarlo, mentre lei si dirigeva verso quel ponte che l’avrebbe protetta per questa nuova notte.
-Si trattava davvero di una nuova Notte-
notte che conteneva il suo sogno più bello.
Lo cercava da sempre.
Un vecchio vagabondo che passava di lì quella Notte giura di avere visto un ponte luminoso sospeso fra cielo e terra e su quel ponte due sfere di luce che salivano verso l’alto.
Era la Donna, era il suo Amore.
Lo cercava da sempre
Gioia Calcagnolo
Testo ermetico veramente significativo e denso di significati in cui si sovrappongono il sensibile e il simbolico, il materiale e lo spirituale in una continua serie di corrispondenze e personificazioni (la Notte, la Neve, il Giorno, il ponte) amplificate da un contrasto forte tra i "cartoni putridi di pioggia" ed il "ponte luminoso sospeso fra cielo e terra".
Ancora più positivo in quanto, evitando descrizioni di luoghi fisici che in questo contesto divengono superflui, il racconto è racchiuso in brevi, folgoranti immagini, pronte ad essere assorbite dall'anima prima che dalla mente, costretta ad inseguire un significato sempre sfuggente - perché sempre più ricco ogni qualvolta sembra compenetrato.
Eccellente.
Davide Gorga
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Colori
di
Astfelia
Bianco.
Presso un ruscello dall'acqua trasparente, sedevo avvolta nel mio bianco kimono, al sorgere della splendente luna. C'era pace. Un soffio d'aria quasi gelida mi fece rabbrividire, eppure la primavera era matura e i bianchi fiori del ciliegio già cadevano sulla mia candida veste.
Da dove veniva quel soffio gelido come un presagio di morte?
Nuove premonizioni...La mia mente tornò alle mie esistenze passate di cui avevo chiara memoria: il susseguirsi delle mie vite era segnato dallo sventurato dono della preveggenza.
Freddo autunnale nella chiara sera di primavera: con me rabbrividiva il ciliegio.
Stavano per arrivare, come allora...
Oro.
A Troia fui Cassandra, la figlia di Priamo. Profetizzai solennemente la fine della città dalle mura dorate, opera di Febo. Incolpai della sciagura la bionda Elena, quando tutti, obnubilati dalla sua sfolgorante bellezza, non scorgevano l'orrore che si celava sotto i suoi veli. I figli di Priamo vedevano soltanto i doni di Afrodite d'oro.
Fui derisa, scacciata. Fuggii dalla corte, avvolta nel mio peplo ricamato con fili d'oro. Errai, gemendo, fra le tombe degli eroi troiani caduti nel lungo conflitto, piangendo per le loro anime, chiedendo agli alberi di proteggere la loro sepoltura.
Pietosi, gli alberi lasciavano cadere le loro foglie d'oro sulle tombe, mentre io vedevo me stessa trascinata via dal vittorioso Agamennone. Trascinata via, lontano, in Argo... Il mio peplo d'oro strappato...
Verde.
Fui Mydrin, una Druidessa britanna. Cavalcavo sicura il mio puledro nero nella verde foresta, verso il sacro tempio di Stonehenge.
Tranquilla, riposavo in una radura, ammirando da lontano le maestose pietre dell'antico tempio, splendenti alla luce della luna piena.
Il tappeto d'erba era il mio giaciglio, il mio pesante mantello verde, la mia coperta. Venne una donna straniera e mi chiese di riscaldarsi presso il mio fuoco. Il suo nome era Maria Maddalena, veniva dalla lontana Giudea. Sedette accanto a me, mi parlò a lungo della sua strana fede che comandava di amare anche i nemici, del suo Gesù Cristo morto in croce e poi risorto. Guardai il volto della donna, i miei occhi verdi fissi nei suoi, nerissimi. Un brivido mi corse per le membra e sentii tremare anche l'erba, anche la terra.
Vidi nel cielo il cerchio eterno della vita, simbolo della mia antica fede, unito ad una croce in esso inscritta, ma subito dopo il cerchio scomparve e rimase soltanto la croce.
La nuova fede di Maria Maddalena veniva sulla mia terra per fingere di mescersi con la mia e poi spazzarla via per sempre...
Rosso e nero.
Fui Yen Ju-yu, una donna taoista, nell'antica Cina. Avevo penetrato il mistero del Tao e vivevo in perfetta simbiosi con la natura, lontana dalle ansie terrene, disprezzando la fama che passa come i fiori del mattino, stimando tutto il mondo null'altro che polvere e fumo. Non sapevo nulla della politica, della forza e della debolezza della dinastia regnante.
Disegnavo il simbolo del Tao sulla terra rossa e meditavo, paga di me stessa, ma, all'improvviso, vedevo un'ombra nera allungarsi sulla mia terra rossa, un'ombra minacciosa che veniva da nord.
Erano gli Yuan, i Mongoli di Gengis Khan, che venivano a spazzar via il languido mondo dei Sung...
Seppi che stavano arrivando, mentre meditavo, immersa nella mia immobile quiete. Piombarono nel mio villaggio, seminando terrore e distruzione. Zoccoli di neri destrieri dagli occhi infuocati cancellarono il simbolo del Tao dalla terra rossa, sollevando una densa nube di polvere. Con un abile balzo mi alzai in volo per fuggir via, usando un'antica tecnica taoista, ma il guerriero mongolo, vedendomi volare, si spaventò, mi scambiò per un fantasma, scagliò contro di me la sua sciabola affilata. Un fantasma fu ciò che divenni, quando l'arma recise la mia testa. Con un lungo grido volai via, lontano dalla terra rossa intrisa del mio sangue...
Bianco e rosso.
Avvolta nel mio bianco kimono, mi allontanai lentamente dal ruscello, dopo aver salutato gli esseri fatati dell'acqua, di cui conoscevo tutti gli incanti. Fui Haruna, la magica fanciulla del Paese del Sol Levante. Gli spiriti della natura mi erano amici e mi svelavano ogni giorno la loro magia. Gli spiriti della neve mi avevano donato lo spillone di cristallo che tratteneva i miei neri capelli.
I bianchi fiori del ciliegio continuavano a cadere sul mio capo e sul mio kimono, mentre mi dirigevo verso casa. La gente del villaggio mi salutava sorridendo e inchinandosi: tutti amavano Haruna, la fanciulla magica, che parlava con gli spiriti buoni, che sapeva guarire le malattie con le benefiche erbe, che compiva ogni giorno piccoli prodigi.
Il nostro villaggio era piccolo, ma ora c'erano i soldati. Li aveva mandati l'Impero per aspettare i demoni bianchi chiamati Marines. Dovevano fermarli, prima che s'impadronissero dell'isola.
Di questa grande guerra, che ora sconvolgeva tutto il mondo, il mio villaggio e io non sapevamo nulla, sentivamo solo che presto il fuoco della battaglia sarebbe giunto anche da noi.
Entrando nella mia piccola casa di legno, mi tolsi i sandali e lo spillone di cristallo dai capelli, ma la sua punta aguzza mi ferì un dito. Stille di sangue macchiarono il mio bianco kimono. Un nuovo presagio, dopo il soffio d'aria gelida presso il ruscello, ma allora non volli pensare, non volli sapere...
Era tempo di assaporare la mia quiete domestica.
Preparai con cura un caldo tè, aggiungendovi petali di fiore di biancospino, indossai il più candido dei miei abiti. Scese la notte silenziosa e mi avvolse in un sonno profondo. Non mi accorsi di nulla.
Poco dopo l'alba, nell'uscire da casa, fui avvolta da una coltre spettrale di nebbia, e ciò che vidi fu davvero tremendo.
Morte, signora bellissima e dolce, incrociò il mio sguardo sgomento.
Il velo prezioso, ricamato con cura dagli spiriti del ghiaccio, aveva mutato colore: da bianco brillante che era, apparve ora d'un rosso scuro e profondo.
Corpi feriti, mutilati, dilaniati giacevano al suolo.
Grida, spari, fuoco, fumo denso. Una donna mi riconobbe e corse disperatamente verso di me, col suo bambino ferito in braccio. Me lo tese piangendo, illudendosi che la fanciulla magica potesse guarirlo. Lo presi fra le braccia. La sua testa ciondolava, un rivolo di sangue gli sgorgò dalla bocca, arrossando il mio bianco kimono: era già morto.
- Non posso fare niente - dissero i miei occhi sgomenti a quelli folli della madre.
Lei cadde a terra, tramortita. Nell'aria fischiavano impazziti i proiettili. Uno di essi mi colpì. Fulminata, aprii le braccia, lasciando cadere a terra il bimbo morto e crollai su di lui.
Accorsero gli spiriti buoni a prendere la mia anima, la portarono via, in volo nel cielo di perla, lontano da quel rosso orrore.
L'ultimo desiderio che sospirai lasciando quella piccola esistenza: non tornare mai più alla vita come un essere umano.
Azzurro.
Sono un piccolo pappagallo dalle piume grigie, nere e azzurre, nato nel cuore infuocato dell'Africa.
Io e la mia compagna identica a me e da me inseparabile, abbiamo appena finito di costruire con cura il nostro confortevole nido all'interno di un albero cavo, usando piccoli pezzi di corteccia, teneri fili d'erba e morbido muschio. Ora che abbiamo completato il lavoro, ci lisciamo le penne e guardiamo con gioia il nostro nido, sognando la futura prole che accudiremo con immenso amore.
Poi, cinguettando allegramente, spicchiamo il volo verso il cielo azzurro come le nostre piume e voliamo in alto, scevri di qualsiasi preveggenza, liberi dal peso del passato e dall'ansia del futuro, immersi solo nel fluire del presente, semplicemente felici fra cielo e terra.
Astfelia
Una prosa dalla liricità lieve e coinvolgente come un delicato sutra che si incida profondamente nell’animo del lettore. Scandendo i singoli paragrafi tramite l’avvicendarsi dei colori l’autrice disegna un procedere dell’anima nei secoli, una vita dopo l’altra, ciascuna delle quali segnata dall’aspetto simbolico ed intimo del colore stesso, quasi raffigurazione visiva di un destino, di un motivo presente nell’esistenza il cui aspetto preponderante è espresso trmite l’utilizzo dell’accumulazione e dei rimandi, diretti ed impliciti - per cui ad esempio nel primo avremo il bianco kimono, la luna, l’aria definita gelida con rimando alla neve, i fiori del ciliegio bianchi, la veste candida.
Con rara maestria, l’autrice non lascia che la narrazione, ricca di spunti poetici possenti, si uniformi forzatamente della cornice; viceversa, utilizza la struttura stessa senza che mai questa soffochi il contenuto - veicolato tramite un uso sapiente e disinvolto sia di elementi storici (la cui precisione arricchisce di sfumature concrete la narrazione) sia di altri prettamente leggendari, come la citazione di Maria Maddalena, lasciando veramente trascolorare la storia nella leggenda… Così il tempio di Stonehenge è nuovamente popolato da druidi, e dietro la figura di Mydrin s’intravede per un attimo Myrddin, il Merlino delle leggende arturiane, così gli spiriti buoni, i Kami, rivivono affianco della loro controparte, gli Oni, in un’armonia che ripercorre la fusione con la natura, annunciata già nel principio (“con me rabbrividiva il ciliegio”), dilaniata dalla ferocia degli uomini (l’irrompere della guerra nella vita di Haruna, in un villaggio che desiderava la pace, peraltro ancora una volta preannunciato dal soffio d’aria gelida avvertito presso il ruscello), celebrata nella bellezza interiore dell’essere umano contrapposta a quella vana, vuota, esteriore (l’orrore di Elena celato dal velo, dai doni d’oro di Afrodite), mistificazione della realtà più intima e vera in un involucro destinato all’impermanenza…
Anche in questo caso, le venature foscoliane, ancor prima che omeriche, sono trasposte in un’ottica che le riqualifica funzionalmente donando ad esse quella nuance di delicatezza che le rendono pienamente inserite nel contesto.
Stilisticamente impeccabile, con un’abilità straordinaria nel maneggiare la lingua scritta per armonizzarla al sentire intimo, il brano tocca vette non facilmente raggiungibili nella storia di Yen Ju-yu. D’altronde, indimenticabili sono le emozioni che percorrono circolarmente l’intero racconto, non a caso viene richiamato alla mente il cerchio quale simbolo dell’antica religione da Mydrin, la sacerdotessa dagli occhi verdi come la foresta. Le rarissime imprecisioni, del tutto veniali (in Giappone è diffuso quasi esclusivamente il ciliegio a fiori rosa, non bianchi) nulla tolgono alla bellezza espositiva, elegante, raffinata senza mai eccedere nella descrizione del particolare, conservando la giusta misura. La struttura circolare si dispiega in tutte le sue potenzialità nella consequenzialità tra il primo ed il quinto paragrafo, indicata e non esplicitata, in una forma che ricomprende ogni vita nell’esistenza ciclica; un susseguirsi che s’interrompe solo nell’ultimo paragrafo, in cui il desiderio di non rivestire più spoglie umane si avvera nell’acquisizione di un corpo di uccellino dalle piume azzurre, al contempo uscita dal destino continuo di dolore degli esseri umani e di abbraccio amorevole verso tutti gli esseri senzienti, ma anche di notevole valore simbolico, rappresentato dal volo e dall’azzurro, finalmente ascesa verso quei cieli in cui splende la luce del presente, eterno fluire in cui passato e futuro si annullano, satori in cui la preveggenza si annulla così come perdono significato le categorie speculative per lasciare spazio finalmente ad un cielo sereno, desiderio e fine ultimo di chi desidera la verità come l’aria che respira, pertanto, simbologia di una condizione di definitiva beatitudine.
Raramente una prosa riesce a contenere tali e tanti significati fluendo libera e dando l’impressione di scriversi quasi da sé. Rispetto alla precedente poesia, in cui il tema della reincarnazione veniva affrontato, il salto di qualità è enorme. Quando si raggiungono determinati risultati, quando il sentire ultimo è palpabile ed immediato, la prosa scaturisce da una fonte viva e raggiunge intensamente il profondo di ogni anima - l’assoluto.
Meravigliosa.
Davide Gorga
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Un lupo che viene da lontano
di
Sally
La voce di mia madre, impostata e stentorea, da attrice degli anni ’50, mi chiamò.
– Cara... vai tu, hanno suonato alla porta.
“Uffa!”, pensai, alzandomi con fastidio dalla scrivania.
Aprii la porta d’ingresso e mi ritrovai, posato sulle braccia, un grosso plico leggero, legato con lo spago e avvolto in carta marroncina.
– Firmi qui, per favore, e buongiorno. – mi disse sbrigativamente il fattorino.
– Su, dammi! – fece mia madre incuriosita, afferrando in modo deciso il pacco dalle mie mani, senza lasciarmi il tempo di capire cosa contenesse. Lei lo stava già aprendo.
I suoi modi autoritari di insegnante di lettere antiche, accidenti, avevano il potere di irritarmi, sempre. Ancora una volta mi trattava come fossi una sua giovane allieva, che nervi.
– Ooohhh! – disse solo; quindi proseguì: – Oh, guarda! Un cappello di pelliccia, un colbacco da vera zarina, che meraviglia!
Qualcosa mi colpì, in quella frase, perché abbandonai l’ostentata indifferenza di poco prima per avvicinarmi al pacco appena aperto.
– Quale pelliccia? – chiesi io, in modo fintamente distratto.
– Ma tesoro, questo cappello di pelliccia di lupo… Guarda: c’è un biglietto di spiegazione, nella confezione... “Giovane lupo di sesso maschile, ecc ecc...”
Improvvisamente impallidii, sentii il gelo scorrermi nelle vene tese come cavi d’acciaio, e un brivido freddo mi colpì in modo potente.
Mi sentivo soffocare dall’angoscia, sentivo gelo fin nelle ossa, e non riuscivo più a muovermi. Una forza sconosciuta mi teneva incollata a terra. Non riuscivo a toccare quel cappello di pelliccia di lupo.
Me ne guardavo bene: era come se scottasse.
Poco a poco il tepore del sangue che circolava nel mio corpo mi riportò a una condizione accettabile, ma ero triste. Provavo una tristezza infinita e amarissima. Era tutto incomprensibile, irrazionale quello che mi stava capitando. Avevo la sensazione che nella mia mente ci fosse della stoppa.
Improvvisamente non avevo più voglia di uscire e mi stesi sul letto. Caddi in una sorta di stato visionario spontaneo; era uno stato particolare tra la veglia e il sonno; ero lucida e cosciente, tuttavia sapevo che stavo per entrare nel territorio del sogno.
Subito mi apparve una nebbia densa che poco a poco si diradava. Sentivo l’aria attorno vibrare, carica di elettricità.
La nebbia lasciò emergere una foresta di alti alberi verde scuro, il terreno con il sottobosco piuttosto rado riluceva come smeraldo sotto la luna piena. Vidi un lupo venirmi incontro, lentamente. Quando fu a una spanna da me, fissò i suoi occhi obliqui nei miei, direttamente. Quale fierezza leggevo in quegli occhi!
In quel momento ero – nello stesso tempo – il sognato e il sognatore.
Non solo agivo nel sogno, ma mi vedevo come se ne fossi la spettatrice.
* * *
Ero un giovane lupo che correva nelle notti di luna piena, assaporando ogni attimo della mia vitalità. La cosa che più amavo era correre e sentire la carezza del vento sulla mia pelliccia, l’aria entrava nel mio corpo e corroborava i miei potenti muscoli, i miei polmoni; le mie zampe agili e scattanti sembravano sfiorare il terreno.
Vivendo onoravo lo spirito dei miei progenitori, della Terra, del Vento e del Cielo.
I miei antenati mi avevano donato l’istinto sicuro per la caccia, la capacità di trovare i sentieri giusti, la perseveranza, il coraggio nel combattimento necessario, la lealtà e lo spirito di collaborazione con i miei simili.
La Terra mi aveva donato le ossa, i muscoli, e tutto il mio corpo elastico e forte per affrontare la difficile vita nella foresta. Il Cielo mi aveva donato uno spirito libero, un’anima coraggiosa che sa affrontare la morte con dignità.
Nelle fredde notti invernali, amavo correre nella neve alta, sotto la luce della luna piena. Respiravo tutta la libertà e la forza che mi servivano per vivere, correvo veloce con grandi falcate, mi immergevo nella coltre bianchissima e pura, senza fare rumore, lasciando dietro di me uno stretto passaggio come traccia.
A volte, accompagnava le mie corse a perdifiato il freddo vento del Nord, e così sapevo che mi stava fortificando.
Una notte vennero dei cacciatori, avevano lunghi fucili. Si acquattarono dietro i cespugli, silenziosi.
Quando sentii il loro odore, fu troppo tardi.
Non sono come l’arco e le frecce, i fucili.
Una gara è nobile quando è pari: il cacciatore combatte per difendere la sua vita, e l’animale per difendere la propria. Si misurano due forze uguali e contrarie. Uno solo vince, la natura non è democratica.
Vince il più forte.
Ma la caccia coi fucili è impari, non è cosa buona per nessuno.
… Ora tu vedi lo spirito lacerato di un giovane lupo, sono qui… e non riesco ad andare nelle praterie del cielo. Ho ancora troppa collera nel mio cuore, una sorda ira per la mia morte precoce e ingiusta. Non posso più correre nella neve, senza il corpo fisico. Mi mancano tanto le corse nella neve alta… Aiutami, ti prego…
* * *
Turbata, mi risollevai a sedere, avevo ancora negli occhi l’immagine del fiero lupo, bellissimo nella sua posizione statuaria davanti a me.
Ma ciò che mi aveva colpito di più era il suo sguardo che implorava aiuto.
Da me?
Che potevo fare, io, per lui?
Ero molto turbata.
Ora sapevo il motivo profondo e vero del mio disagio di fronte al cappello ricevuto da mia madre.
Improvvisamente, come in un film, rivedevo il lupo, i fucili spianati davanti a lui, rivivevo nel mio corpo – istante dopo istante – la sua fuga disperata e angosciosa, con l’adrenalina che scorreva velocemente nel suo rosso sangue caldo, le tempie che pulsavano e il cuore che batteva furiosamente… la paura di essere braccato era spessa come un muro mentre l’ombra della morte stava allungando il suo braccio a ghermirlo.
Un colpo secco, una lama di luce accecante davanti a lui.
* * *
Una notte sognai in modo singolarmente vivido e lucido che incontravo una donna molto particolare: stava seduta in una casa con il focolare acceso, aveva lunghi capelli neri e serici riuniti in due trecce che scendevano sul seno prosperoso. Aveva un viso dalla pelle di porcellana, occhi neri come il diaspro, e un sorriso appena accennato. Tuttavia leggevo grande dolcezza nel suo sguardo severo.* * *
– A volte le parole sono come uno scialle: ti avvolgono e ti scaldano, oppure le avverti come una oscura minaccia, e non vorresti udirle. Mentre le parole d’amore… quelle sì che ti piacciono! A volte, però, faresti a meno delle parole, di tutte le parole del mondo, e chiedi rifugio al silenzio.
Io sono il lupo braccato, sono l’ebbrezza della corsa, sono il lupo della difesa del branco e dell’attacco a viso aperto quando è necessario, sono il lupo che sa trovare i giusti sentieri, che annusa il pericolo, sono il lupo dello spirito leale, della perseveranza, della collaborazione per il bene della comunità, sono uno spirito libero, sono colui che sa trovare vantaggio dai cambiamenti, ma anche quello che sa affrontare la morte con dignità.
Le parole hanno un potere sciamanico, le parole danzano nel vento e nel cuore delle persone, non conoscono ostacoli.
Il senso delle mie parole, e il loro potere, entrerà nel tuo cuore e tu comprenderai cose nuove per la tua vita.
* * *
La mia esistenza continuò su binari consueti, apparentemente. Eppure, sebbene in modo impercettibile, qualcosa era cambiato per sempre.
Non sapevo bene cosa fosse; non sapevo spiegarlo con un pensiero razionale.
Tuttavia qualcosa di differente aveva fatto irruzione nella mia vita, con l’arrivo del lupo.
Una notte – non lo dimenticherò mai – sognai il giovane lupo.
Piangevo, sentivo le lacrime bagnarmi il viso, mi mancava come fossimo stati amici fraterni da tempo incalcolabile, come se il sentimento che ci univa avesse superato barriere di tempo, e spazi e luoghi sconosciuti alla mente ma non al cuore, come se avessimo diviso il dolore e la felicità, le corse e il gioco, là nella foresta su quelle alture. Lo abbracciai forte sentendolo parte di me, profondamente.
Lui era arrendevole e quieto.
Mi leccò il viso.
Mi asciugai le lacrime col dorso della mano. Lo guardai: gli occhi erano lucenti di vita; non erano spenti e opachi come quando mi chiese aiuto la prima volta che lo conobbi, nella visione tra la veglia e il sogno.
* * *
– Grazie, ora sto bene.
Hai fatto ciò che ti avevo chiesto e così ho trovato la mia strada. Ora non ho più sofferenza, e per ringraziarti di ciò che hai fatto per me, ti resterò accanto per aiutarti a realizzare il tuo Sogno di vita. Ti dono il mio coraggio, la mia decisione, il mio spirito di alleanza.
Però… ti chiedo ancora di fare una cosa per me… una cosa che mi manca!
* * *
Sono nata in una vallata alpina del Piemonte. Amo da sempre le passeggiate e le scalate in alta montagna. Amo ogni sasso, ogni fiore e ogni erba della montagna, e la rispetto profondamente, riunendomi – attraverso di lei – a tutte le forze della natura.
Ma sopra ogni cosa amo correre nei boschi innevati, nelle notti del freddo inverno, con la luna piena a rischiarare i pendii, tenendo sui miei biondi capelli un caldo cappello di pelliccia di lupo.
(Si ringrazia Elena Fila–Mauro)
Sally
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Primavera di una nuova vita
La forza della rinascita
di
Serena Carnemolla
Cara Erika,
perdonami se non ho risposto prima alla tua ultima lettera… sai, oramai Francesco assorbe tutto il mio tempo libero! Com’erano belli i tempi della scuola, quanti pomeriggi trascorsi a fantasticare sul nostro futuro e a consumare il trucco di tua sorella maggiore! Oh sì, volevamo a tutti i costi essere belle e sentirci grandi! Ricordo ancora, come fosse ieri, quando, sporgendoci dalla tua terrazza, chiamavamo a gran voce i ragazzi che passavano per strada e, quando questi si voltavano verso di noi, ci nascondevamo dietro il muretto per non farci scoprire.
Poi è arrivato Mattia e i nostri pomeriggi insieme sono finiti. Quanto mi mancavi, Erika! Mattia mi diceva che non dovevo uscire senza di lui perché, altrimenti, si sarebbe infuriato: era pericolosissimo per una ragazza indifesa come me andare in giro da sola! Così trascorrevo i miei pomeriggi chiusa in casa da sola, Mattia mi raccomandava di aspettarlo lì, quando sarebbe tornato dal bar. A volte faceva tardi, altre non veniva per nulla: lui stava così bene con i suoi amici! Era così protettivo nei miei confronti, con i suoi muscoli e la sua altezza spaventava chiunque osasse guardarmi per strada. Pensa che un giorno, mentre passeggiavamo insieme, passò Roberto, il ragazzo dell’ultimo banco, ed io feci per salutarlo. Mattia si voltò furibondo verso di me, mi diede uno schiaffo davanti a tutti e si mise a gridare: “Quannu mi camini o cantu, a testa ri ‘nterra nunnà spinciri, e mancu all’autri masculi à taliari!”. Da allora capii che quando gli camminavo vicino dovevo guardare a terra, perché se avessi guardato un altro ragazzo sarebbe stata una grave offesa nei suoi confronti. Il mio volto divenne paonazzo e le lacrime vennero giù spontaneamente, non so se per il dolore che gli avevo arrecato, oppure per il male fisico e morale che provavo in quel momento. Talvolta mi portava per i negozi e mi faceva qualche regalo. Una volta mi regalò una lunga gonna nera da indossare in occasione della festa di paese: con quell’indumento nessuno avrebbe visto le mie gambe. “Tu sì a fimmina mia e nuddu tà taliare ciussai i quantu ti puozzu taliari iu.” Era la frase che mi ripeteva sempre. Ricordo che un giorno venne a prendermi all’uscita di scuola, fu il mio ultimo giorno seduta accanto a te nel nostro primo banco.
Mattia mi amava a tal punto da temere che qualcuno dei ragazzi potesse guardarmi, o che, ad uno dei nostri compagni di scuola, potesse passare per la testa di toccarmi. Mentre mi accompagnava a casa, cingendomi la vita con il braccio, con tanta forza da farmi male, mi disse: “Tu ri rumani fai na cosa truoppu bella: ti ni vieni cu mia unni ti puozzu controllari.” Com’era premuroso! Voleva che anziché andare a scuola lo seguissi al lavoro: lì di certo, con lui accanto, nessuno mi avrebbe fatto nulla. Così feci per i primi giorni, ma mia madre mi scoprì e s’infuriò. Io non capivo il motivo della sua disperazione, poiché il mio ragazzo, che era più grande di me e più esperto, mi aveva messo in guardia dal pericolo che quel posto, la scuola, poteva rappresentare. A me piaceva tanto andare con lui in campagna e aiutarlo a ristorarsi dopo lunghe ore di lavoro. Lo aiutavo a spostare i sacchi pieni di olive, ma a volte si arrabbiava perché la mia schiena non sopportava carichi pesanti, così, premendo con le sue mani forti sulle mie spalle e scuotendomi, gridava: “Nun si bbona pi fari nenti tu!” Tuttavia comprendevo che il lavoro sotto il sole lo affaticava e quindi non mi sembrava strano che se la prendesse anche con me. Tra noi c’erano anche momenti teneri: quando finiva di caricare tutti i sacchi sul camion che partiva verso il frantoio, ci chiudevamo nella stalla per stare un po’ da soli. C’erano giorni in cui io mi sentivo troppo stanca e indolenzita dopo una pesante giornata di lavoro, o dopo uno dei suoi frequenti sfoghi violenti, così gli chiedevo di tornare a casa un po’ prima. Lui, però, voleva stare lo stesso con me e, spingendomi dentro la stalla, la chiudeva con il catenaccio. Un giorno mi colse un malore, mentre raccoglievo le ultime olive rimaste sul telone; al mio risveglio mi chiese come mi sentivo ed io prontamente mi rialzai, dicendogli che stavo a meraviglia perché ero insieme a lui.
Fu in quel momento che vidi nei suoi occhi una luce nuova… era la luce del suo amore che cresceva sempre più? Nei giorni seguenti la fatica si fece davvero sentire; ero sfinita, ma non avevo voglia di chiedergli di tornare a casa prima, sapevo che mi avrebbe spinta dentro la stalla senza ascoltare la mia opinione, così assecondavo il suo desiderio di stare insieme con sempre maggiore indifferenza. “Tu finu a quanni sì cu mia à fari chiddu ca vuojju iu. Iu t’addifiennu e tu m’à suttastari.” Così rispondeva nervosamente quando notava la mia insofferenza. Lontano da lui era tutto troppo pericoloso ed io ero troppo indifesa, in cambio della sua protezione dovevo sottostare a tutto ciò che diceva. Mia madre era disperata quando mi vedeva tornare a casa senza forze, non avevo voglia neanche di mangiare, tuttavia presi ad ingrassare ogni giorno di più. Mi scomparve il ciclo, le mie forme si arrotondarono: mi guardavo allo specchio senza maglietta. Che pancia enorme avevo! Mia madre entrò nella mia camera e mi vide; s’inginocchiò e iniziò a piangere. Mattia, che era di là, venne e mi vide lì, di profilo dinanzi allo specchio. “Bedda matri, ma tu sì ‘ncinta!” gridò. Lentamente e con lo sguardo fisso sul mio ventre, mi venne vicino, senza dire una parola: credevo stesse per abbracciarmi. Mi afferrò per le spalle e mi scaraventò al muro, un dolore atroce al viso e poi una fitta lancinante al ventre. Mi accasciai dolente a terra, lo vidi voltarmi le spalle e guardarmi con disprezzo: fu l’ultima volta che incrociai il suo sguardo.
In primavera nacque Francesco e tenerlo fra le mie braccia fu la gioia più grande che avessi mai provato. Sono passati anni ormai, non mi sono diplomata insieme a te e sono andata via dal nostro paesino.
Erika, qui ho ricominciato da zero una nuova vita e ne vado fiera. Sento di non aver commesso alcun errore, dare tanta importanza a chi si vuole dimenticare a tutti i costi sarebbe stato lo sbaglio più grande. Piangere sul tempo speso con lui e strapparmi i capelli per il male che mi ha fatto mi avrebbe arrecato soltanto altro dolore. Adesso mi prendo cura del mio piccolo Francesco, con tutta me stessa. Voglio che cresca sano – e diverso da suo padre. Dimmi, una madre che tratta con freddezza una creatura innocente, che tra l’altro non ha chiesto di essere figlia di un padre irresponsabile, secondo te non si pone allo stesso livello di chi l’ha abbandonata? Ora sento di essere cresciuta, sono più forte di lui.
Mattia mi ha allontanato da tutto ciò che poteva darmi forza e stimolarmi a pensare, le mie amicizie, la scuola; mi ha impedito di realizzare i miei progetti di vita. Adesso voglio dimostrare a lui, ma ancor prima a me stessa, che saprò riprendere in mano la mia vita e saprò crescere questo frugoletto con tutto l’amore che è mancato a suo padre, così insicuro da relegarmi in casa. Sono stata una ragazza fragile, ma oggi mi sento una donna forte. Solo ora comprendo che la luce nuova che mi illusi di vedere nei suoi occhi scuri, il giorno che ebbi il mio primo malessere, era solo paura, il timore che la sua donna potesse risvegliarsi e prendere in mano la situazione. Mattia non è mai stato in grado di vincere la paura di perdermi; per camuffarla reagiva violentemente. Il dolore che mi arrecava non era nulla a confronto della debolezza che, perdendomi, lo avrebbe sconfitto. Ogni schiaffo, calcio o pugno che ricevevo era il simbolo del suo male interiore, della sua fragilità. Quando se n’è andato, mentre suo figlio cresceva nel mio grembo, ha tradito la sua maschera di forza: un vero uomo avrebbe affrontato la situazione, non sarebbe miseramente fuggito… chissà, forse la sua paura più grande era di avere un erede nato dalla violenza, che crescendo lo avrebbe messo in difficoltà.
Erika, ti prometto che appena Francesco sarà cresciuto un altro po’, tornerò a scuola e finirò di crescere, più forte di prima.
Potranno strappare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera.
Serena Carnemolla
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La bocca del mostro
di
Elisabetta Tosi
Nelle giornate in cui c’era più da fare, il Mostro si metteva in moto.
Era sempre lì, in cima al tavolo, quasi in posa trionfante.
Trilly lo guardava sempre con sospetto, soprattutto quando si nutriva; sì, perché, quando era ora di pranzo, il Mostro non si risparmiava di certo, ed emetteva quel tipo di suoni che fanno rizzare ai gatti ogni singolo pelo della coda.
Fortunatamente per Trilly, il cibo dell’essere in questione non erano i gatti come lei, ma degli oggetti bianchi che il Mostro ingurgitava senza pietà; poi, non contento, ne sputava fuori i miseri resti con strane tracce nere su di essi.
Di tutte le cose che erano presenti in quella casa, il Mostro era decisamente la più strana, ancor più del quadrato che emetteva suoni e colori e dell’essere che faceva diventare alcune cibarie calde fumanti.
Per questo Trilly stava ben attenta a tenersi alla larga dal nemico, soprattutto quando questi entrava in attività ed emetteva i suoi strani rumori; no, lei preferiva di gran lunga starsene raggomitolata nel letto della padrona quando faceva freddo, o camminare sul cornicione del balcone nelle giornate estive, quando una lieve brezza le rinfrescava il pelo; certo, una volta, quando la brezza era stata un po’ più forte del solito, da quel cornicione lei ci era caduta, ma, si sa, i gatti cadono sempre in piedi, specie quando si tratta di un volo non troppo lungo. Che poi nessuno ebbe cura di spiegarle perché fossero tutti così arrabbiati con lei – che in fondo aveva fatto solo il suo dovere: cadere in piedi – è tutta un’altra storia.
La giornata che però per Trilly segnò un importante svolta fu quello della lotta col Mostro: accadde un giorno di primavera, quando, ingannata dal tepore del sole caldo, si era avventurata nella camera del Mostro per riposare un po’: in casa non c’era nessuno che potesse dare da mangiare all’essere, per cui si decise ad andarlo a scrutare più da vicino. Un po’ diffidente, provò ad annusarlo ma non percepì alcun odore particolare; così, a metà tra il rassegnato e il deluso, si addormentò sulla scatola emittente di suoni e colori, lasciando, forse senza accorgersene, la sua coda penzoloni accanto alle fauci del mostro. Quando la padrona tornò, Trilly alzò pigramente un occhio per controllare la situazione; lei la accarezzò piano e la gatta si sentì rassicurata, convinta di poter continuare a dormire senza problemi. Tuttavia, prima che potesse rendersene contro, il Mostro era stato attivato, e, nel fagocitare la sua preda, finì che si mangiò anche un paio di peli della sua coda. Trilly fece un balzo rapidissimo sul pavimento e corse sotto il letto, luogo che riteneva essere sicuro.
Da allora Trilly alla stampante non si avvicina più, anche perché, ormai, i peli strappati della sua coda le sono ricresciuti...
Elisabetta Tosi
Questo testo, originariamente scritto dall'Autrice come intermezzo per un libro dedicato agli animali ("Storie vere di amici veri" - progetto purtroppo mai realizzato per la defezione di una dei tre Autori), pur originando completamente dalla fantasia, denota una padronanza stilistica e lessicale notevoli. La verve, l'umorismo piano e gentile, eppure coinvolgente, rendono la lettura gradevole come una folata di fresco vento.
Davide Gorga
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Jehanne Darc
di
Sally
Il giorno.
Jeanne è seduta davanti al tramonto, rosseggia il cielo creando una profondità in cui s'immerge con tutta l'anima.
Si sente sollevare verso il cielo, eppure sotto i piedi nudi di contadina, sente l'asperità della terra.
Dimentica tutto ciò che è attorno, solo il cielo con la sua immensa forza elevatrice le drizza la colonna vertebrale, riempiendola, con ondate poderose, di un potere che supera l'umano.
Attorno, solo silenzio.
A un tratto, una voce le parla.
Non sa da dove giunga.
E' smarrita, volge gli occhi da entrambi i lati, ma non vede nessuno.
Sta forse impazzendo?
Svelta, la sua fresca mano di ragazza corre ad afferrare un lembo della veste leggera, un vento forte pare improvvisamente volerla sollevare da terra.
Le pare, ora, di vedere tutto dall'alto. E la voce le dice cose che subito non comprende, eppure la voce è autorevole, sebbena abbia una nota - là in fondo - di amore compassionevole e dolente.
Lacrime amare le scorrono sul volto. Una tragedia immane sta per travolgere il suo Paese!
Dovrà lasciare la sua casa, i genitori, la famiglia... dovrà attraversare il mare per andare in una terra che non conosce, di cui non sa la lingua, di cui ha solo udito racconti, di tanto in tanto.
Racconti di viaggiatori che tornavano a casa, e non sa quanto di vero potesse esserci.
La mano gelida della paura stringe forte il suo cuore.
Ma è stata chiamata dal Cielo, e dovrà farlo, fino in fondo.
La notte.
Dalle palpebre socchiuse traspare una luce; non è il lume. Ricorda - tra la veglia e il sonno - d'averlo spento, prima di coricarsi.
Apre piano gli occhi grandi e neri, la luce è forte laggiù nel fondo della stanza.... e ora pare venirle accanto. Trema, ha paura. Ancora la paura, ma diversa da quella del giorno.
La luce che vede la bella Giovanna, là al fondo della sua stanza è presagio di un immenso e bruciante falò...
Tira la coperta fin sul viso, non vuole vedere; poi ode di nuovo la stessa voce, dolce ma autorevole. Le ricorda l'impegno, le rammenta il suo compito.
... e ora, lei è qui.... solo donna, sola
"Sto qui, in piedi
sopra il mio dolore
pietrificata
dal fuoco
che mi divora.
La tunica punge la carne,
strappata.
Il ferro ha tormentato
pezzi del mio viso,
lacerato.
Tenaglie roventi,
mani insanguinate
e poi
la terribile corda
con i suoi giri.
Adesso i miei capelli neri,
come bandiera di libertà
volano nel vento.
La mia anima,
solo quella,
si frantuma in un canto d’oro
che sale al cielo.
Il corpo,
solo quello,
oramai è cenere
sulle braci dell’alta fascina"
A Jeanne d'Arc
da: http://it.netlog.com/sallytes108
Sally
Testo che può essere adeguatamente commentato solo leggendo le parole di Régine Pernoud tratte da La spiritualità di Giovanna d'Arco - «Il cavaliere, infatti, è essenzialmente un essere impegnato. Egli ha, un certo giorno, fatto giuramento di mettere la propria spada al servizio del debole, e una simile promessa non era certo facile da mantenere. Farne l'oggetto di un giuramento significava propriamente votarsi all'impossibile. E nonostante ciò un'intera società ha considerato come un onore eminente l'essere ammessi ad assumere questo particolare impegno, che implicava molteplici rinunce alla propria volontà e a se stessi, ma più ancora, quel voto non poteva avere alcun valore se non all'interno di un atto di fede: il cavaliere sapeva di votarsi all'impossibile, e faceva affidamento su Colui in nome del quale era stato battezzato per mantenersi saldo, al di là di se stesso, delle sue debolezze, delle sue viltà. Tale è il voto cavalleresco ed è quello che fa la sua nobiltà: senza riferimenti a un assoluto, esso non è che eccesso, imprudenza, perfino stoltezza. Eppure la società feudale ha fatto conto su questo impegno e per almeno tre secoli la sua fiducia fu spesso ben riposta. (...)
Giovanna sembra così riprendere per parte sua questo impegno cavalleresco che la condurrà alla totale immolazione, quella che fa i Santi.
Potremmo anche andare più lontano, osando pensare che quell'abito da uomo, che non annulla affato le sue doti femminili, pone Giovanna direttamente in quell'eternità in cui, come ci viene detto nel Vangelo, "quelli che (...) saranno giudicati degni della vita futura non prenderanno più né moglie né marito (...) perché sono uguali agli angeli"(1)».
1 Lc 20, 35-36
[Régine Pernoud - La spiritualità di Giovanna d'Arco - 1998 - Jaca Book - Milano - ISBN: 88-16-40480-9]
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I Canti delle Stagioni
di
Ilaria Giancani
Ilaria Giancani
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Il Mondo
di
CAM
Splendide, brevi, intime poesie di CAM, poetessa che non desidera notorietà. Procedono per giustapposizioni e immagini semplici e tremendamente potenti.
Davide Gorga
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Banshee
di
Serena Carnemolla
Banshee
Verdi colline
dai prati sconfinati
si perdono nei miei occhi.
sino all'orizzonte
come sorriso della natura
e speranza del mondo.
Bianche libellule
come anime libere
solcano il verde,
spiegano le ali
verso il mattino
come candidi angeli.
E mi immergo nel silenzio:
divengo vento
e accarezzo il cielo,
sussurro alle nubi
e finalmente libera
rido di luce.
Giunta in cima
di quest'alta scogliera
apro le ali:
so di poter volare
e dimentico il dolore,
guardo il mare.
Serena Carnemolla
Una poesia semplice, piana, volutamente elegiaca... Sicuramente vissuta o come tale recepita dal lettore; le immagini chiare e l'andamento lineare sono apprezzabili, così come gli accostamenti, forse non inattesi, ma precisi e delicati ("Bianche libellule ... come candidi angeli.") sino a suggerire parallelismi inediti, mentre le figure retoriche, come l'accumulazione, non divengono un pretesto per scrivere ma sono funzionali a concetti - e soprattutto emozioni - che oltrepassano il foglio di carta con naturalezza.
Alcune frasi sono veramente situate con cura, forse inconscia, producendo un effetto splendente ed incisivo ("rido di luce.").
Davide Gorga
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Ed io sono ancora qui
di
Gioia Calcagnolo
Ed io sono ancora qui
ad attendere
che l'afasia
si faccia suono
e il rumore
delle sillabe
si smorzi sulle labbra
come il tramonto
che ogni giorno
si spegne
abbracciato
al mio sguardo
-sui vetri-
Gioia Calcagnolo
Poesia dell'immobilità, del silenzio, della solitudine - contrassegnata da versi brevi; netti staccati che tranciano il naturale proseguire della parola e della vita stessa. Il bisogno di dialogo autentico con l'Altro, inteso quale linfa vitale di un rapporto percepito e rappresentato forte, indiscutibile, importante come l'avvicendarsi del giorno e delle stagioni, poiché ogni tramonto è la nascita di una nuova aurora...
L'abbraccio del sole calante nei suoi bagliori rossi e dorati - vita, speranza, volontà - agli occhi dell'Io narrante diviene tortura dinanzi all'"afasia", all'incomunicabilità di fronte alla quale non è possibile arrendersi, poiché molto, troppo è in gioco: "Ed io sono ancora qui" recita il titolo, in un'attesa che potrà forse essere senza fine, o sciogliersi in un'alba di suoni e colori meravigliosi come la vita stessa.
Lo sguardo rimane "sui vetri" nell'attesa paziente ma non passiva...
È un canto dell'anima, è una manifestazione di volontà ed amore incondizionato che stupiscono per incisività e capacità espressiva dell'Autrice.
Davide Gorga
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Trasparenze
di
Gioia Calcagnolo
Trasparenze
seguendo la scia
di un profumo sconosciuto
entro piano e ti cerco
potrei attraversare
la luce che filtra
con una carezza
e stringere la polvere
e i riflessi
tra le mani
-tutto è disposto con ordine-
non è il silenzio, lo so
e nemmeno il profumo
a rubarmi la tristezza
è il tuo sorriso muto
e la dolcezza
delle cose che non dici...
Gioia Calcagnolo
Frammento elegiaco che impone il profumo, simbolo della nostalgia, ad aprire la lirica; fragraza ignota e tuttavia non per questo meno malinconica; in cui tutto, persino la luce con il suo splendore, preannuncia la "polvere", la fine di un ciclo che rimanda unicamente riflessi, per sempre tra le mani - mani che non sono state capaci di costruire sulla roccia, di trattenere l'amore, di strappare parole a quel silenzio muto, e dolce, e triste che chiude la lirica.
Poesia giocata in trasparenza su un dolore non acuto come frammenti di vetro bensì intriso di una speranza non detta, implicita nell'accoglimento dell'altro, lungo la via, sino all'accettazione del rifiuto stesso quale ultimo segno di ineffabilità del sentimento.
La dicotomia tra serena accettazione degli eventi e dolore intenso è la misura della profondità di questa bellissima lirica.
Davide Gorga
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Spasmi di primavera
di
Paola Tomasiello
Spasmi di primavera
Spasmi di Primavera
Sembrano neve
Fiocca nei tuoi occhi bianchi
Senza correre
Chiudi la porta
O non potrò più
Giocare con gli Elfi
Nel giardino degli echi
E degli arcobaleni
Né potrò nascondermi
Con le marionette
Di Tristelandia
Per gli applausi mediocri
Nel teatrino vuoto
Il sipario è chiuso
Come le tue finestre
E i denti
Schizzati di vernice...
Trasparente
Eppure opaca
Ora apro la porta
Confido in una tua caduta.
18.07.2000
Paola Tomasiello
È un rincorrersi d'immagini della Primavera intesa nel suo significato simbolico più profondo, quindi come freschezza, fantasia, gioco; un incanto che viene minacciato e per il quale si chiede aiuto a chi ne ha condiviso l'estasi leggera ("Chiudi la porta"). Ma non è più il tempo dei sogni per l'altro. Ed allora meglio aprire la porta insidiosa, almeno cadrà l'altro per primo, nel nostro mondo grigio.
L'assenza o meglio la difficoltà nel seguire un filo logico preciso è deliberata, la lirica si nutre d'impressioni, velature sfumate che rintoccano nel profondo. Forse solo negli ultimi versi ("E i denti / Schizzati di vernice..." ) tale tendenza diviene eccessiva.
Rimane comunque una bella poesia, che tralasciando tutti i discorsi "seri" parla direttamente all'animo, - Giocando con gli Elfi.
Davide Gorga
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Il tocco
di
Paola Tomasiello
Il tocco
Il tocco
di viola medusa
nell'Oceano illuminato ancora
di sole infuocato
che tentacoli scioglie
su ruvida sabbia appiccicosa.
Spiragli lucenti e sottili
attraverso gotiche finestre colorate
svolazzano polveri
di silenzi secolari,
particelle d'oscurità respirate
raschiano la gola
sino alle ossa riposate.
Il tocco
di acque infrangersi
che Arti sgretola
su stormi di piccoli uccelli giocare
l'inquietudine di fasci carnali
presto distruggendo riuscirà a calmare.
Elf
23.09.2004
Paola Tomasiello
La poesia, procedendo per tre momenti successivi, s'impone al lettore grazie ad un voluto crescendo di dissoluzione del tessuto sintattico-grammaticale per dar vita, grazie a lievi e forti pennellate impressioniste, ad un'immagine sempre più nitida del vissuto interiore. La scansione sintattica trova il suo parallelo in quella simbolica oltre che emotiva, vera chiave di volta della lirica.
Nella prima parte, l'emotività è ancora legata a quanto permane sommerso, figurativamente espresso dall'elemento equoreo, quindi vittima in certa misura dell'inconscio che avvinghia, con i suoi "tentacoli", il sentimento e l'anelito ad un'elevazione che viene annunciata nel periodo successivo, da "spiragli lucenti e sottili".
È l'illuminazione spirituale che invade dapprima in singoli lampi interiori, quindi attraverso una rielaborazione emotiva del passato, l'oscurità marina. Notevole il simbolismo delle "finestre gotiche", quindi a sesto acuto, tese verso l'ascesa spirituale, dei "silenzi secolari" che sostengono l'immagine centrale in cui le "particelle d'oscurità" vengono "respirate", pertanto riassorbite e rielaborate.
Nell'ultimo periodo, sembra quasi che la dissoluzione del formale giunga al suo culmine; ritornano le acque, ma accompagnate da un potente simbolismo di elevazione - l'oscurità non è stata annullata, bensì compresa, accettata, sublimata; l'"inquietudine dei fasci carnali" non solo quietata, ma dissolta in una visione più ampia, dinanzi alla quale la lirica giustamente si ferma.
Sebbene, personalmente, preferisca i componimenti dall'andamento piano e lineare, in questo caso devo ammettere che la sperimentazione verbale dell'autrice appare veramente riuscita...
Splendida, indimenticabile poesia, complimenti.
Davide Gorga
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Onde e ringhiere
di
Paola Tomasiello
"Anche quando
in immobilità
è il mare,
fioriscono coralli".
Quella notte credevo,
sulla spiaggia.
E non ho più levato
i granelli dai pantaloni.
Il sottile suono
sfregare gli occhi.
Il peso delle onde
nella gola.
Il tocco lieve della lingua
tra le pareti della bocca.
Questo esiliato lembo del tempo
ritornare sulla riva del ricordo.
La tua bellezza
ora è una bugia
accostata ad un altro bacio soltanto.
Non mio.
Ma sì, di' pure neanche tuo.
Ma basta l'intenzione
di evadere dalla mia isola
dove, hai ragione,
non hai mai potuto camminare
a piedi nudi.
Eppure, sai bene quanto anch'io
non conosca quest'isola.
Dovevi credermi quando
ti dicevo che siamo soli.
E chi se ne frega delle stelle
quando cascano fulmini sulla testa.
Preferisco le montagne al mare.
E non il vasto azzurro,
ma le grigie ringhiere
dove ancora mi chino,
mi sporgo ad osservare
il tempo appoggiato
su queste confuse ombre.
23.06.2005
Elf
Paola Tomasiello
La lirica presentata oltrepassa con facilità impressionante la distanza fra autore e lettore, anche in virtù della naturalezza con la quale stili diversi vengono accostati senza forzature, fluidamente, spontaneamente. È una poesia che arriva direttamente come un profumo inatteso portato da una folata di vento - non è certo poco...
Nella quartina iniziale, la posposizione del soggetto rafforza potentemente l'immagine poetica - anche per il contrasto concettuale tra crescita ed immobilità, ribadito dall'accostamento di suoni consonantici aspri e duri con altri progressivamente più morbidi come in "coralli". Dall'evocazione del ricordo magico, nei quattro versi successivi si passa dapprima alla disillusione ("Quella notte credevo" - con il verbo ancora in posizione dominante) quasi a voler marcare una cesura nella ricerca dell'Ideale; ciò che invece non avviene nei versi immediatamente prossimi, in cui continua ancora a prevalere l'allitterazione insistita della "l", a rimarcare la continuità nella discontinuità, la ricerca della magia raffigurata dai coralli.
Il ricordo prosegue per sinergie possenti per le loro capacità evocative, per simboli che procedono l'uno dall'altro in una identificazione dell'interiorità con il mondo stesso ("Il peso delle onde / nella gola") simile ad una comunione mistica forse non ancora afferrata ma sicuramente ricercata...
Comunione mistica che si ripropone quale tentativo nella quartina successiva, in cui il sovvenire di un bacio rimanda indietro nel tempo - ed il mare stesso diviene il simbolo della profondità del tempo ("ritornare sulla riva del ricordo").
Non a caso, in questi versi è preponderante l'utilizzo di suoni duri, taglienti, aspri, quasi a rendere musicalmente lo strazio interiore.
Erompe infine la carica vitale nei versi successivi in cui la bellezza è recepita come menzogna, in cui ancora ritornano il mare e l'isola, razionalizzazione e soprattutto esternazione del sentimento profondo, che comunque richiede il coraggio necessario per affrontare il mare circostante.
Il lessico diviene impetuoso quale preparazione alla confessione con la quale termina la prima parte: "Eppure, sai bene quanto anch'io / non conosca quest'isola".
È il dolore della disillusione, come già fatto notare da altri; tanto più atroce quanto più l'obiettivo che sembrava a portata di mano - la consapevolezza interiore, che porta alla pace, sfugge in un soffio, quasi come per una diserzione di un compagno d'armi sul campo di battaglia spirituale...
La disillusione è più metafisica che non legata ad un amore finito. È la solitudine il nemico peggiore - è la mancanza di conoscenza profonda di sé stessi e la consapevolezza di questa mancanza, comune eppure così difficile da esprimere od anche solo da ammettere! - da cui scaturisce il convincimento dell'inevitabilità della solitudine.
Ed ancora oltre, è il rifiuto delle stelle, delle luci che illuminano fioche l'oscurità, invisibili sotto una tempesta di fulmini che tutto schianti.
La lirica si chiude inaspettatamente con l'invocazione delle montagne, simbolo, immagine stessa di quanto è più elevato, in senso fisico ed archetipo, come in uno slancio di sublimazione. Una elevazione che tuttavia non riesce a scindersi dall'apparentemente eterno ricordo del mare, vette la cui inaccessibilità viene dolorosamente sperimentata con una sorta di reclusione dello spirito, dietro le Ringhiere già preannunciate dal titolo, sbarre e inferriate, versi in cui aleggia un sentimento mai sopito di suicidio - il chinarsi su ringhiere grigie non riuscendo a raggiungere l'azzurro (la purezza delle vette), le cime innevate.
Eppure, quando il tempo sembra essersi fermato, ritorna ancora la sfida viva e fluente come il futuro della vita.
Poesia stupenda - in attesa che la sfida venga raccolta e si muti in battaglia spirituale...
Davide Gorga
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Sonno spezzato
di
Ilaria Giancani
Sonno spezzato
immagini random di una giornata giocattolo
Flash, Flashback e immagini
Bombardate in loop violenti
per sconvolgere il mio sonno
Ho creato la colonna sonora nel cuore della notte.
Mi son voltata
e ancora ho capito che il castello
deve scendere dal cielo
Che il cavaliere oggi per me non c'è.
Mi son voltata e ho dormito ancora.
Ilaria Giancani
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