Se la letteratura si pone quale arte dalle molteplici modalità di fruizione, in quanto un’opera può essere letta, cantata, recitata e ascoltata, o addirittura sperimentata tattilmente tramite l’alfabeto Braille, accedendo a più canali percettivi, la pittura risulta in certo qual modo limitata, essendo linguaggio visivo puro (nonostante i tentativi moderni di includere in essa variabili tattili) e, ciononostante – quasi paradossalmente – è per vocazione portata a valicare i confini del sensibile per accedere a realtà diverse, non sempre metafisiche ma in ogni modo superiori e intime. Claude Monet (1840 – 1926) interpreta esemplarmente questa antinomia che scaturisce da un lato dalla personale interpretazione e dalla sempre più marcata consapevolezza di essere chiamato a compenetrare un mondo oltre il sensibile e dall’altro, al contempo, dal vincolo della luce, del colore, dalla rappresentazione sempre più distante e simbolica del visibile.
Formatosi alla «Libre Académie Suisse», rifugge dal Realismo imperante nelle teorie artistiche dell’epoca, nella pittura quanto in letteratura, trovando il suo primo maestro in Eugène Boudin, artista che inizia a distaccarsi da quella che reputa l’impossibile impresa di riprodurre “la realtà”, quasi che l’oggettività sia accessibile e, soprattutto, quand’anche raggiunta, possa essere di una qualche utilità e non invece una limitazione inaccettabile per l’espressività dell’artista. Monet fa immediatamente suo questo insegnamento: conosce il poeta Charles Baudelaire e ne mutua la convinzione che nell’universo esistano ben più grandi corrispondenze in cui “profumi, colori e suoni si rispondono”. Questo il germe che poco per volta svilupperà nelle sue tele; il vero stacco con il passato si avrà nell’esposizione tenutasi il 25 aprile 1874 a Parigi, nello studio del fotografo Nadar, in Boulevard des Capucines: Monet esporrà una tela destinata a divenire tra le più famose della storia della pittura; si tratta di «Impression, soleil levant», dipinta nel 1872. Il quadro, realizzato en plein air, rappresenta un brumoso porto di Le Havre in cui come in sogno si giustappongono imbarcazioni, la distesa delle alberature, il cielo ed un sole strano, quasi evocato, in cui la scelta cromatica, la tecnica di realizzazione, la sensibilità per l’intensità luminosa, proiettano lo spettatore in un panorama fantastico dominato dal colorismo intenso e sfumato che dal cielo si trasfonde quasi senza soluzione di continuità al mare ed ai soggetti in primo piano, incerti, soffusi, amalgamati nella totalità della visione – persino il sole non mostra una luminosità particolarmente intensa e si disegna sullo sfondo unicamente per il diverso colore, rosso nel grigio azzurro striato di bianco che pervade l’aria, quasi a ricadere e riempire ogni spazio, in una tridimensionalità interiore e prettamente coloristica. Qui, Monet non dipinge tanto l’esteriorità dello spazio, quanto l’interiorità dei molteplici e pur unitari sentimenti, sensazioni, impressioni e ricordi rifocalizzati in un’atmosfera dell’anima.
È il primo passo, fondamentale, che l’artista compie nell’abbandono di una pittura puramente oggettiva per aprirsi alla soggettività o, meglio, all’interiorità. Sebbene le figure umane compaiano nei suoi quadri unicamente come elementi di forma e, ancor più, di colore, esattamente come gli altri elementi del paesaggio in cui si fondono quasi misticamente, il soggetto principale è sempre il mondo interiore dell’artista, con tutto quanto possa esprimere tramite il sensibile attraverso di esso. In questo momento la Natura è maestra ed ispiratrice; in seguito l’evoluzione della riflessione porterà Monet a scegliere e a creare la natura in funzione del messaggio veicolato.
Tuttavia, di fronte a un cambiamento di prospettiva così clamoroso, per di più accompagnato dal progressivo allontanamento dalle tecniche pittoriche in uso al tempo, con cui l’artista reciderà ogni legame proprio in occasione della mostra del 1874, la critica si mostrerà feroce. Il critico Louis Leroy, con un’ironia prossima al disprezzo (in verità abbastanza gratuito) paragona il dipinto a dozzinale “carta da parati”; tuttavia è lui a creare il termine “Impressionisti” per indicare i pittori intervenuti all’esposizione: in senso dispregiativo, naturalmente. Eppure, la definizione rimarrà e sarà fatta propria dagli stessi artisti che rivendicano, con fierezza, la loro novità rispetto all’arte precedente.
Monet è innanzitutto un ricercatore: della realtà ultima e intima, così come delle potenzialità inesplorate della pittura, della volontà di raffigurare sinestesicamente suoni, colori, profumi, sensazioni nell’arte pittorica, che riverberano in un’espressività di cui il termine “impressione” rimarca la profonda interiorizzazione che precede e integra il lavoro su tela. Questo sforzo, che si svilupperà progressivamente, non può non ricordare il proposito del già citato Baudelaire e, ancor più, del poeta Arthur Rimbaud: “Questa lingua sarà dell’anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, del pensiero che aggancia il pensiero e che tira”1 e pienamente realizzato nelle «Illuminazioni», composte all’epoca di «Impression, soleil levant» e pubblicate nel 1886. È possibile tracciare un parallelo tra l’evoluzione di questi poeti (così come di Verlaine o Mallarmé) e la sempre più matura e, a giusta ragione, ambiziosa poetica di Monet.
Tra il 1889 ed il 1891 si dedica alla realizzazione di una serie di dipinti noti come “I Covoni di fieno” e, dal 1892 ed il 1894, al ciclo de “Le Cattedrali di Rouen” in cui lo stesso soggetto è dipinto decine di volte; all’inizio del ventesimo secolo sarà poi a Londra di cui tratteggerà paesaggi assolutamente nuovi e diversi. La rappresentazione del reale diviene unicamente lo spunto per la rappresentazione di una realtà al di là del fenomeno, in cui lo slancio metafisico è a malapena nascosto dietro le cortine di fumo di una città cimiteriale in cui la modernità ha fallito, lasciando una nebbia cinerea nell’animo abbandonato e grigio, privo di quel sole e di quella compartecipazione al senso profondo ed al miracolo della natura che animano i suoi quadri più vitali e solari. Sempre più il paesaggio interiore prende spunto da quello esteriore, fluidificandolo, raggelandolo, manipolandolo a seconda di come lo stesso è interiorizzato e nella misura in cui può esteriorizzare lo stato d’animo, il tormento o la gioia, il ricordo e l’affettività dell’artista, in un susseguirsi di esplorazioni sempre più ardite che giungono infine a sfiorare lo stesso Simbolismo.
Anche la tecnica si affina, divenendo tecnicamente complessa in virtuosismi inediti; nel ciclo delle Cattedrali la pennellata diviene forte, materica, grumo di luce nel rappresentare l’impatto del sole, della vita stessa, che scolpisce volumetrie lontane e imponenti, assertive, mentre si dilegua in tratti esili, sottili, nell’allontanarsi dal cuore di fuoco (e di volontà) sino a sfumare magistralmente.
Altre volte, sono le stesse forme a dare l’impressione di dilatarsi nel primo chiaro del mattino. È il trionfo di una tecnica diversa; una tecnica pittorica innanzitutto interiorizzata che partecipa della creazione stessa del soggetto.
Artisti quali VassiliJ Kandisnkij, poeti ed autori del calibro di Mallarmé e Proust rimarranno affascinati e ammirati dalla maestria di Monet. Marcel Proust, in particolare, sarà quasi sconvolto dalle infinite possibilità interpretative delle tele di Monet, che attirano, rapiscono, invitano al sogno, in atmosfere in cui è la psiche dell’osservatore a sentirsi persa in molteplici significati, quasi che spetti a lui decifrare o, meglio, offrire una chiave di lettura all’opera poetica: “questo disgelo è come un miraggio; non si percepisce differenza tra il ghiaccio e la luce del sole; tutti questi frammenti galleggianti irrompono nel clamore del cielo spazzandolo via; lo splendore degli alberi è tale che non sapresti dire se derivi dal rossore autunnale o da una qualche essenza interna alla loro specie; alla fine non sai più cos’è che stai guardando, se il letto di un fiume o il chiarore di una foresta”2. È il “disgelo” altro tema prediletto di Monet, in cui il formale si dissolve nell’informale.
Nell’ultimo periodo della sua vita, Monet, quasi cieco, creerà la natura che servirà ad esprimere la sua interiorità, soprattutto con il ciclo delle “ninfee”, compiendo il definitivo rovesciamento di prospettiva iniziato ai tempi dei primi dipinti “impressionisti” ed intuito da Proust, aprendo strade inaspettate per la pittura – e portando alle conseguenza estreme quel lavoro accanito, severo, intransigente di eviscerazione della realtà ultima e di ridefinizione del concetto stesso di pittura, in grado di accogliere anche elementi sino ad allora sostanzialmente estranei e quale mezzo per offrire, in ultimo, all’osservatore, attraverso l’interiorità dell’artista, la possibilità di esplorare la propria – in un sovrapporsi di significati e sentimenti che definire simbolisti sarebbe forse riduttivo.
Claude Monet morì nel dicembre del 1926, lasciando dietro di sé un lavoro titanico che rivoluzionerà per sempre la pittura.
Note
1) Arthur Rimbaud – «Lettera del veggente» a Paul Demeny, 15 maggio 1871.
2) Vanessa Gavioli, «Monet» – 2007, Skyra editore.
Il mondo di John Ronald Reuel Tolkien
Ainulindalë
— La Musica degli Ainur —
L'Ainulindalë è un breve testo con cui si apre il "Silmarillion", opera postuma di J.R.R. Tolkien. In esso vengono narrate le origini del mondo, dalla Creazione "nella musica", da cui il titolo, per cui l'Universo null'altro sarebbe che un'unica, immensa melodia, alla Creazione "in visione" sino a quella posta finalmente "in essere".
Si tratta di un testo densissimo, dal linguaggio aulico e tuttavia conciso, in cui l'autore pone le fondamenta del mondo che andrà creando nelle opere successive (il Silmarillion è stato pubblicato postumo, ma è tra i primi lavori cui l'Autore diede mano, continuando ad arricchirlo e perfezionarlo sino alla morte, avvenuta nel 1973), come "Lo Hobbit" e, soprattutto "Il Signore degli Anelli".
Tutto —narra Tolkien— ebbe inizio dall'Uno, "che in Arda è detto Ilùvatar" che "creò per primi gli Ainur, i Santi, rampolli del suo pensiero".
Segue poi la narrazione della Creazione, con il Primo Tema musicale, un Tema cui tutti gli Ainur presero parte, ma durante il quale uno di essi, detto Melkor, prese a intonare una melodia sua propria, fragorosa, possente ma dissonante e orrenda.
Seguono a questo punto il Secondo e il Terzo Tema musicale, con cui Ilùvatar tenta di riconciliare con l'amore la dissonanza creata da Melkor, ma quest'ultimo oppone un rifiuto. Non è difficile scorgere in questo resoconto che Tolkien ci dà dei "Giorni prima del Mondo" un riflesso della teologia cristiana, anche tenendo conto del fatto che, successivamente, si avrà contesa tra gli Ainur: Melkor e i suoi seguaci da una parte; Manwe e gli Ainur fedeli a Ilùvatar dall'altra — trasposizione della Battaglia tra Lucifero e l'Arcangelo Michele. Tuttavia va tenuto conto che, sebbene Il Silmarillion nel suo insieme, così come Il Signore degli Anelli, siano anche teologici e morali, nell'Ainulindalë Tolkien non stava stendendo un trattato teologico, ma costruendo una mitologia.
Egli stava creando quello che era stato l'Olimpo degli Dèi Greci, descrivendo, col massimo rigore logico, come gli abitanti della "Terra di Mezzo" avrebbero immaginato le proprie origini e quelle dell'Universo.
Sebbene incompiuto, possiamo dire che sostanzialmente Tolkien ha mantenuto la stessa coerenza sia internamente al Silmarillion sia esternamente, con le opere che ad esso fanno riferimento per ciò che riguarda la struttura e la Creazione della Terra di Mezzo; ed in particolare nel Signore degli Anelli.
Lui solo ha ricreato per noi quello che l'immaginario collettivo di Greci e Romani partorirono in secoli e secoli. Nell'Ainulindalë sono poi altre considerazioni di carattere più "filosofico": essenzialmente, che ogni cosa proviene dall'Uno ed è innanzitutto vibrazione ed energia, per poi mutarsi in suono e luce; che solo l'Uno può creare ex nihilo esseri senzienti dotati di una propria individualità e volontà; che alla Fine tutto, persino il Male, quello assoluto, rappresentato da Melkor, da cui originarono le cause di ogni crimine, violenza, odio, e di tutto quanto vi è di maligno al mondo, che si tratti del singolo o di interi popoli ( ricordiamo il Fratricidio di Alqualondë ), tutto tornerà all'Uno e non farà altro che accrescere la sua gloria, per quanto questo possa risultare oscuro persino agli stessi Ainur.
Nelle opere successive e massimamente nel Signore degli Anelli Tolkien si attiene fermamente alle vicende narrate nel Silmarillion, e principalmente a quelle descritte nell'Ainulindalë; e tuttavia, pur trasportandoci tra Re e Regine, Nani, Maghi ed Elfi, la sua attenzione si appunta sempre su quelli che un altro scrittore riterrebbe personaggi "minori", come il vecchio Maggot, un contadino onesto ma duro e forte come la terra sotto i suoi piedi, o forse, ancor di più, come Omorzo Cactaceo, un uomo basso e grasso ma bonario, pacifico, generoso e cauto, proprietario di un'osteria in apparenza insignificante, in realtà fulcro di eventi che avrebbero cambiato il mondo e rovesciato e ricostruito regni.
Insomma, Tolkien ci ricorda sempre che per quanto possano sembrarci distanti i problemi di ogni giorno dai massimi sistemi, per quanto sia grande la distanza che intercorre fra Cielo e Terra, per quanto insignificante possa apparirci la nostra vita di fronte all'Universo, ogni uomo nel suo focolare è Re, ogni donna Regina, e che, spesso se non sempre, "sono le mani dei piccoli ad agire per necessità, mentre gli occhi dei saggi sono rivolti altrove".
John Ronald Reuel Tolkien
— Interpretazioni parallele —
Un autore che a lungo è stato relegato nel ghetto degli “autori per l’infanzia” (e solo recentemente riscoperto grazie all’industria cinematografica e ad una critica un po’ più illuminata) è John Ronald Reuel Tolkien, malgrado “Il Signore degli Anelli”, il suo capolavoro, risulti essere il libro più venduto del secolo! Il libro, imponente e maestoso, nonostante la mole non è un “mattone”; nessuna digressione ottocentesca, ben poca sentenziosità morale (e sempre o quasi messa in bocca a misteriosi individui, gli Stregoni, di cui si conosce poco o nulla) e azioni rapide e avvincenti. Il romanzo narra estesamente la Guerra dell’Anello, combattuta dai Liberi Popoli (Elfi, Nani e Uomini) contro il malvagio Sauron ed i suoi intenti diabolici, dal punto di vista degli Hobbit, un popolo di cui non si trova traccia nelle tradizioni e che sembra essere un’invenzione dell’autore: una branca della razza umana dalla statura minuta, amante della pace e della tranquillità, suo malgrado coinvolta in eventi più grandi di lei.
Qui l’oggetto della contesa è un anello, l’Anello del Potere (o Anello Dominante) e una fantasiosa interpretazione freudiana della vicenda potrebbe individuare in questo oggetto un simbolo sessuale, sebbene l’anello dal punto di vista simbolico abbia significati ben maggiori, cosmici e universali: la sua forma rimanda alla completezza da un lato e, dall’altro, alla ciclicità degli eventi, al continuo e perenne mutamento. Un Indù vedrebbe in esso la “Ruota delle Rinascite”, un Cinese un simbolo che rimanda allo Yin/Yang ed al perpetuo avvicendarsi di luce e buio, estate e inverno; un esoterista lo affiancherebbe alla Ruota della Vita dei Tarocchi, al concetto di destino individuale e universale.
Tuttavia, anche volendo prendere come punto di partenza la visione freudiana, l’impianto narrativo funziona perfettamente e, benché Tolkien non accenni mai ad una possibile interpretazione in tal senso, vale la pena esplorarla e constatare come essa regga anche ad un’analisi di questo tipo.
L’Anello Dominante condivide le caratteristiche proprie della sessualità: dotato di un’immensa potenza, tanto da renderne schiavo chiunque volesse usarlo senza averne la forza necessaria, forgiato da Sauron in persona, il luogotenente sulla Terra di Morgoth, l’equivalente tolkieniano di Lucifero, è in grado di dominare i Grandi Anelli forgiati dalle mani esperte dei fabbri elfici per usi benevoli e pacifici: i tre anelli degli Elfi, in particolare, erano stati fabbricati per mantenere pura e immacolata la terra, per creare armonia e gioia, e, cosa forse ancora più rilevante, per arginare lo scorrere del tempo, e mantenere ogni luogo puro e immutato per l’eternità. Questi anelli in particolare, ornati ciascuno da una gemma, possono simbolizzare alla perfezione lo stato di purezza antecedente l’ingresso nell’età adulta; non per niente gli Elfi di Tolkien sono sì dotati di un’ardente vitalità, ma anche allegri come bambini e similmente poco propensi a lasciarsi scoraggiare dalle avversità; inoltre, per loro stessa natura (immortale) vivono una sorta di eterno presente, tanto che un anno elfico equivale a 144 anni solari.
Degli Anelli dei Nani poco viene detto; dei Nove Anelli degli uomini, che essi più degli altri sono facilmente asservibili al controllo di Sauron. Controllo che viene ottenuto proprio grazie all’Anello Dominante, forgiato nascostamente, ed in seguito perso e smarrito.
Finché, un giorno, esso non viene ritrovato per un puro caso (o per un destino preciso, come direbbe Gandalf, lo Stregone buono).
Che fare, adesso, dell’Anello? La sua potenza è troppo grande e troppo malvagia perché chi lo utilizzi non diventi a sua volta un servo di Morgoth ugualmente crudele e spietato, un nuovo dittatore che ami la morte e la distruzione come il suo predecessore. D’altronde non lo si può custodire in eterno; prima o poi il suo padrone lo riprenderebbe con la pura e semplice forza.
Gettarlo via, oltre a richiedere un’immensa determinazione (e nel corso del libro molti sono tentati di appropriarsene, tale è l'attrazione che l’oggetto esercita), sarebbe pericoloso e incauto: ciò che è perso può essere un giorno ritrovato.
Se adottassimo la chiave di lettura che ci siamo prefissi, individueremmo facilmente nella potente forza di attrazione dell’Anello la pulsione libidica, nella tentazione di appropriarsene una raffigurazione dello stupro, nella volontà di custodirlo in eterno inoffensivo la scelta della verginità.
Ma la decisione che viene presa dal Consiglio, suggerita da Gandalf, emissario del Bene, è ben diversa: la distruzione e l’annientamento dell’oggetto, nel Fuoco stesso in cui venne creato, grazie alla prudenza ed al segreto.
Ed è qui che la nostra interpretazione comincerebbe a vacillare: distruggere la libido? Come sarebbe possibile? Si potrebbe occultare l’Anello (repressione), ignorarlo (rimozione), usarlo come arma a fin di bene -almeno nelle intenzioni iniziali, poiché, avverte il libro stesso, l’utilizzo dell’Anello conduce alla necrofilia ed alla perdita dell’anima del suo possessore- (esercizio socialmente accettabile della libido).
Se volessimo portare sino alle estreme conseguenze questo simbolismo dell’Anello Dominante, che è certamente presente ma subordinato a fronte di un simbolismo ben più vasto ed universale, dovremmo rivolgerci ad altre fonti, che esulano dalla chiave di lettura strettamente psicologica, per affondare le loro radici nella misterosofia; potremmo così trovare un parallelo significativo nell’episodio di Gereint (Erec) e la “prova del corno”, che “appartiene ai misteri superiori ed è una conseguenza della sua duplice funzione, e lo eleva un piano al di sopra della manifestazione polare delle forze sessuali del Cavaliere Rosso e dalla ‘dama del sicomoro’. L’incantesimo del giardino del Sicomoro non esiste più, perché non rappresenta più un pericolo seducente dal quale mai nessuno è mai riuscito a tornare. In termini psicologici il ritorno al ventre materno o alla idilliaca consapevolezza collettiva del livello animale non rappresenta più una travolgente attrazione magnetica. (...) ora lui (Erec) ha conquistato la sua indipendenza spirituale ed è padrone delle forze polari della natura inferiore.”[1]
Invece no. L’Anello viene effettivamente distrutto nelle fornaci di Monte Fato in cui era stato generato; la potenza di Sauron scompare, ed il mondo torna ad essere libero. Ma forse più triste, poiché anche gli anelli degli elfi hanno con esso perduto il loro potere, e le onde del tempo presto invaderanno i loro reami immersi in un eterno presente, invitandoli così all’Esilio, e ad allontanarsi per sempre dalla Terra-di-Mezzo.
Che cos’è quindi accaduto alla spinta sessuale che avevamo identificato con l’Anello del potere? Dobbiamo concludere solo una cosa: è stata o sublimata o distrutta, e benché questo abbia comportato la perdita dell’incanto che gli altri Anelli avevano generato (l’incanto dell’infanzia prima dell’apparire della sessualità), ugualmente il tradimento che Sauron, servo di Morgoth-Lucifero aveva perpetrato nei tempi remoti è stato vanificato, e mai più i popoli saranno sotto la schiavitù dell’Anello; e tutto quanto sarebbe potuto essere creato senza il tradimento iniziale viene perduto, rimanendo solo come una nostalgia lontana, ricordo di cose possibili ma mai accadute.
Ritorniamo così al punto da cui eravamo partiti: la nostalgia di un tempo che non è mai esistito ma che dovrebbe esistere poiché è scritto nella natura stessa del creato. Una nostalgia che entra nel cuore dell’uomo e, lentamente, lo cambia, rendendolo più triste per la consapevolezza di ciò che è stato perduto, ma più saggio.
Come Alice sperduta nel Paese delle Meraviglie, anche in Tolkien i personaggi vengono messi in guardia dal duplice aspetto di apparenza di vita e vittoria, e realtà di morte, che il simbolo possiede. Eros non è più l’alternativa a Tanathos; ne diventa soltanto una maschera, come i modi cortesi che il tricheco usa per attirare le ostriche (in Carrol): l’Anello svolge la stessa funzione; a fronte di una promessa di facile vittoria sul male, corrompe l’anima del suo possessore fino a renderlo un dittatore il cui fine è solo la morte e la distruzione di Arda (la Terra), e di quanto in essa vive.
Pertanto, è possibile accedere all’opera di Tolkien grazie a molteplici chiavi di lettura; quanto più una fonte letteraria è aperta a differenti interpretazioni, tanto più essa è ricca di significati che si sovrappongono a livelli diversi.
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Note
1 - Gareth Knight, “La Tradizione segreta nella Leggenda Arturiana”
Quando John R.R. Tolkien, scrivendo Il Signore degli Anelli, si ritrovò dinanzi la grande città di Minas Tirith – assediata dal possente esercito allestito da Mordor per l’annientamento completo della potenza di Gondor e, con essa, della libertà degli Uomini e degli altri popoli liberi della Terra di Mezzo – isolata, priva di speranza e di una guida sicura, certamente avvertì il bisogno di contrapporre alla fatalità tragica dell’ineluttabile un evento che sarebbe risultato risolutivo in maniera del tutto inaspettata, oltre ogni speranza del lettore, per realizzare quell’eucatastrofe che, sola, è capace di catarsi e di rendere a una storia la funzione che le è propria. Il grande affresco dell’assedio sotto un cielo fosco e gravido di nefasti presagi, in attesa dell’impossibile, e, lontana, la promessa di un aiuto cui ormai pochi credevano, dovette, del pari, richiamare alla mente del cattolico Tolkien un evento già accaduto nella realtà, molto tempo prima, in quel Medio Evo che aveva prodotto il Beowulf ma che abbracciava epoche e secoli diversi tra loro. Un’altra città, questa volta reale, era stata assediata per lunghi, interminabili mesi, e liberata in pochi giorni da un evento che era sembrato miracoloso, oltre cinque secoli prima: Orléans. Ed è difficile ignorare le singolari sovrapposizioni tra la storia e la narrazione che, nel Signore degli Anelli, procede per un susseguirsi di speranze infrante e disperazioni spezzate da un solenne fato.
Come Orléans, anche Minas Tirith non solo è assediata senza speranza di salvezza; è anche l’ultimo baluardo prima della caduta di un regno che non ha ancora un Re legittimo; l’incoronazione trionfale di Aragorn sarà speculare a quella, solenne, di Carlo VII a Reims, in entrambi i casi del tutto imprevedibile. Se nel libro il ramingo ha rivendicato ad un Sovrintendente inetto il governo e la corona, nella storia un principe impacciato, timido, lontanissimo dalla successione, si ritroverà acclamato dal suo popolo come Il Vittorioso, licenziando uno dopo l’altro gli incapaci ministri. Se il regno di Gondor ha perso l’antica capitale, Osgiliath, la Cittadella delle Stelle, e, con essa, il controllo del fiume Anduin, ugualmente la Francia aveva perso il dominio della Loira, confine naturale per l’accesso alle terre meridionali, il fiume più lungo del regno, e Parigi, la capitale storica.
E, cosa ancora più importante, il soccorso doveva venire in entrambi i casi da una persona che non avrebbe avuto alcun motivo per essere lì. Chiamata da Dio o dal destino, in soccorso degli uomini o del regno; soprattutto, ultima difesa contro il male morale ancor prima che vessillo contro il nemico sul campo di battaglia; preannunciata da una profezia mormorata con timore da persone che neppure ne conoscevano l’origine. Giovanna d’Arco giunse così ad Orléans. Allo stesso modo, Tolkien forgiò con tempra d’acciaio e stupore primaverile Éowyn, nipote del re di Rohan, che nascostamente si unì all’armata che giungeva in soccorso della città assediata. E come, di Giovanna, si diceva che sarebbe giunta per liberare la Francia, ugualmente nel libro troviamo Éowyn destinata ad un'impresa più alta del semplice ruolo guerriero che si è addossata; non è suo compito sconfiggere l’esercito assediante, pur se partecipa alla battaglia, bensì quello di misurarsi con un’incarnazione del Male, il Re Stregone, il comandante supremo della armate di Mordor, che nella paura, nella disperazione e nel terrore aveva le sue armi, ancor prima che sul piano del combattimento puramente fisico. E l’evento più miracoloso dell’impresa di Giovanna era stato appunto quello di ricordare ai combattenti che essi erano innanzitutto uomini, prima che belve assetate di sangue, la sfida maggiore l’aveva affrontata quando si era rivolta allo spirito di quei briganti che ancora si chiamavano soldati, restituendo loro dignità, onore, salvezza, in un tempo in cui v’era solo disperazione.
Così, troviamo dama Éowyn nella carica di cavalleria che travolge le armate assedianti, ed è davvero difficile non tracciare un parallelo tra la cavalleria pesante francese e le sue cariche frontali, che così spesso si erano scontrate con la selva di pioli e picche inglesi, decimata dalle frecce di arcieri implacabili. Particolare che è stato ampliato dal regista Peter Jackson nella sua trasposizione cinematografica dell’opera. E del pari è difficile non vedere in quell’alba disperata, in cui gli uomini sono certi di andare incontro alla morte, rischiarata poco per volta da una consapevolezza che non ha nulla di razionale ma che nasce dall’interiorità, che è avvertita attraverso segnali quasi impercettibili, la stessa speranza che animava i difensori di Orléans. Sui Campi del Pelennor è il vento, simbolo dello spirito, a mutare direzione, iniziando a spirare dal mare, allontanando le nubi sotto cui la città giaceva. Era successo inspiegabilmente in Francia, quando il giovane comandante delle difese si era appena trovato a confronto con quella ragazzina di neppure diciassette anni che pretendeva di dargli ordini: Jean, detto “il Bastardo d’Orléans”, non aveva più pronunciato una parola, quando il vento era girato, improvvisamente, e la Loira era tornata navigabile – ed egli aveva ricominciato a sperare.
Tolkien associa lo stesso, identico simbolo, all’alba, caricandolo di un significato potente. La carica dei Rohirrim che preannuncia la salvezza a Minas Tirith è improvvisa, provvidenziale. Ma un altro dramma deve consumarsi. Il grande re di Rohan, Théoden, deve morire all’apice della speranza, mentre parallelamente il Sovrintendente di Gondor cerca la morte poiché sconfitto dalla disperazione, prima che dal nemico. Ed è in questo frangente che Éowyn, come Giovanna alle Tourelles, compie l’impossibile, abbatte il nemico, un nemico mortale poiché morale ancor prima che fisico; come Giovanna viene ferita; come lei non è sola: se a reggere lo stendardo di Giovanna era un soldato destinato a rimanere nell’ombra, ad aiutare Éowyn troviamo uno dei personaggi meno votati alla guerra tra quelli scaturiti dalla penna di Tolkien, uno hobbit. Come Giovanna fu creduta morta dagli inglesi, Éowyn è creduta morta dalla sua gente e dal suo stesso fratello, Éomer – ed è lui, nel libro, a incitare gli uomini con una sola parola: “Morte!”, ed a cavalcare verso la riscossa. Né è difficile scorgere nei suoi tratti, nel suo comportamento, in trasparenza, la figura del Bastardo d’Orléans, entrambi cugini dell’erede legittimo, entrambi fedeli in uno scenario di tradimenti; grandi combattenti e capitani ma limitati all’ambito puramente umano. È in loro la forza per vincere le battaglie, non quella di cambiare il cuore degli uomini.
Giungerà infine l’Esercito del Sud dal mare sui Campi del Pelennor; giungerà ugualmente il terrore per gli assedianti di Orléans; per i difensori, la salvezza al di là di ogni ragionevole aspettativa.
Dopo la battaglia, Éowyn sarà curata e non parteciperà alla battaglia finale dinanzi al Nero Cancello, così come Giovanna non sarà presente fisicamente alla vittoria di Castillon. A differenza di Giovanna, tuttavia, Éowyn non morirà per mano di un tribunale iniquo, non patirà il supplizio del rogo. Dopo la morte di re Théoden, di suo figlio Théodred, del Sovrintendente, di Boromir suo figlio, per raffigurare un affresco grandioso come quello del supplizio di Giovanna la Pulzella senza tradire il messaggio di speranza che intendeva trasmettere, Tolkien avrebbe dovuto dedicare un intero libro solo alla figura di Éowyn: non sarebbe comunque bastato e il parallelo sarebbe divenuto fin troppo scoperto, anziché rimanere come un potente richiamo, un’eco lontana – come il suono dei corni dei cavalieri nella nebbia del mattino.
Infine, la rinascita di Éowyn e Faramir dopo l’Alito Nero – malattia che affligge il corpo e lo spirito – oscuro e terribile come solo la disperazione può essere, offriva a Tolkien non solo la possibilità di esplorare il lungo, travagliato, percorso interiore che, vissuto in silenzio, porta gli esseri umani a risorgere dopo le più tremende prove, ma anche l’opportunità di raffigurare un amore prettamente umano ed al contempo altamente spiritualizzato.
Qui le due figure si separano. Tolkien, probabilmente, avvertì la propria insufficienza nell’inserire un tema così alto nella sua storia; come scrittore sapeva che la Terra di Mezzo doveva proseguire per la propria strada; come uomo di fede non osava spingersi oltre, perché avvertiva l’immenso oltre le fiamme di Rouen.
Restano, indelebili, alcune delle più belle pagine della letteratura d’ogni tempo.
L’arte della Traduzione
— Le traduzioni del «Signore degli Anelli» a confronto —
Il mestiere del traduttore è sempre stato sottovalutato, e, a volte, frainteso. L’attuale diatriba sulle traduzioni del «Signore degli Anelli», l’una della principessa Vittoria Alliata di Villafranca rivista da Quirino Principe, l’altra di Ottavio Fatica, ha riportato d’attualità il problema, anche considerato il fatto che le precedenti traduzioni (e ritraduzioni) delle opere più note di Tolkien non avevano fatto registrare polemiche, al di là di qualche termine un po’ discusso ma velocemente, se non approvato, quantomeno accettato dalla maggior parte degli studiosi e dei semplici lettori. Ad esempio, per quanto riguarda «Lo Hobbit» il passaggio dalla prima traduzione di Elena Jeronimidis Conte a quella di Caterina Ciuferri e Paolo Paron è stato sostanzialmente ben accetto da critica e pubblico. Del pari, la prima traduzione del «Silmarillion» ad opera di Francesco Saba Sardi, è stata in seguito rivista e per alcuni tratti ritradotta dal curatore della seconda edizione, Marco Respinti; quest'ultima ha conquistato il pubblico e la critica al pari della prima (se non di più) e questo al netto dei gusti e delle preferenze personali.
Andiamo quindi ad esaminare le traduzioni “Alliata/Principe” e di Ottavio Fatica alla luce di un grande interprete della letteratura inglese, Hilaire Belloc, pressoché contemporaneo di Tolkien, come lui cattolico e che s’inserisce nella scuola di Henry Newman, come il Professore. Nel 1931, all’interno della sua vastissima opera, pubblicò il saggio «Sulla traduzione»1, breve ma folgorante per acuità e profondità.
La prima, importante, affermazione di Belloc, è che un traduttore deve ovviamente conoscere sia la lingua di origine sia quella di destinazione ma, inoltre, «deve pure possedere una sorta di lingua ombra, il fantasma di una lingua composita, che agisce come un ponte, e gli permette di passare continuamente dall’una all’altra.» Questa potrebbe sembrare un’asserzione sorprendente quando invece è ovvio che il traduttore deve saper passare istantaneamente dalla resa in lingua originale a quella in cui traduce – pena l’artificiosità, la ricerca forzosa di un traducente, che inevitabilmente si ripercuote nella traduzione, rendendola zoppicante e maldestra.
Quanto alla conoscenza delle lingue di origine e di destinazione, è ancora più esplicito: «significa molto di più del preciso significato ipotetico che si attribuisce ad ogni termine in ognuna delle due lingue; poiché non solo non vi è tale possibile esattezza di definizione, ma in una lingua la connotazione perfino di una semplice parola, che indica semplicemente un oggetto concreto, sarà diversa dalla connotazione della parola corrispondente in un’altra lingua. I suoi legami storici e sociali saranno diversi; il suo effetto sul ritmo della frase e pertanto sull’emozione prodotta sarà diverso!»
Esistono pertanto delle regole nell’arte della traduzione, la prima è che «la traduzione dovrebbe essere nella lingua del traduttore», la seconda, che «la lingua tradotta deve essere posseduta il più perfettamente possibile dal traduttore»; la terza, che «il traduttore deve essere libero da limitazioni meccaniche, di cui le due forme principali sono: a) la limitazione di spazio; b) la limitazione di forma»
Per quanto concerne tali affermazioni, è ovvio che da esso discende l’osservazione che «Il fine di una traduzione è la produzione di un’opera in una certa lingua». Si noti: la produzione. Non la traslazione o un’imitazione dell’originale: «Se traduco La Canzone di Orlando in Inglese, il mio obiettivo è di produrre un’epica in inglese», esplicita Belloc. In altre parole, il lettore non deve avvertire di avere tra le mani una traduzione da una lingua straniera ma, al contrario, deve apprezzare un’opera che sia eccellente nella sua stessa lingua.
Un buon esempio può essere dato da Gérard de Nerval, il quale tradusse, giovanissimo, il «Faust» di Goethe, distinguendosi per il nitore espressivo, tanto che lo stesso autore gli scriverà a riguardo: «Prima di leggervi non mi ero mai così ben compreso»2.
Per quanto riguarda l’ultima regola, quella che pare meno ovvia al lettore, Belloc continua: «il tentativo di mantenere la misura della traduzione esattamente parallela alla misura dell’originale è fatale. Quasi sempre una traduzione dev’essere di maggior lunghezza rispetto all’originale. Non è difficile trovarne la ragione. A meno che si possa trovare un equivalente più o meno soddisfacente – e abbiamo visto quanto sia difficile – si è costretti ad espandere. In ogni termine idiomatico è piegata un’intera frase e il termine deve essere dispiegato se volessimo indicare il suo significato nella nostra lingua, quando non c’è alcun singolo termine comune, strettamente corrispondente, con cui esprimerlo.»
Continua Belloc: «Per esempio, Victor Hugo soffre molto nella traduzione inglese a causa della conservazione del paragrafo breve che era naturale per la narrativa francese del suo tempo ed è sempre stato innaturale per la nostra.» Similmente, Belloc si sofferma su Michelet: «i cui ritmi aulici possono essere e sono resi puerili da una traduzione inadeguata. Così, del grandioso Canto del Girondino “Quelle était cette voix?” – “C’était la Révolution même”, non tradurrei “What was the voice?” “It was the Revolution itself”. Questo mi sembra grottesco in inglese. Preferisco “One might have said, on hearing such a voice, that one had herd the Revolution itself in song”.
Passiamo quindi ad applicare questi concetti alla traduzione del «Signore degli Anelli» di J.R.R. Tolkien3.
Prendiamo l’inizio del capitolo I “A long–expected party” (“Una festa a lungo attesa” – secondo l’Alliata/Principe; “Una festa attesa a lungo” – secondo Fatica):
«When Mr. Bilbo Baggins of Bag End announced that he would shortly be celebrating his eleventy–first birthday with a party of special magnificence, there was much talk and excitement in Hobbiton.
Bilbo was very rich and very peculiar, and had been the wonder of the Shire for sixty years, ever since his remarkable disappearance and unexpected return. The riches he had brought back from his travels had now become a local legend, and it was popularly believed, whatever the old folk might say, that the Hill at Bag End was full of tunnels stuffed with treasures. And if that was not enough for fame, there was also his prolonged vigour to marvel at. Time wore on but it seemed to have little effect on Mr. Baggins. At ninety he was much the same as at fifty. At ninety–nine they begun to call him well–preserved; but unchanged would have been nearer the mark. There were some that shook their heads and thought this was too much of a good thing; it seemed unfair that anyone should possess (apparently) perpetual youth as well as (reputedly) inexhaustible wealth.
‘It will have to be paid for,’ they said. ‘It isn’t natural, and trouble will come of it!’»
Così nella traduzione “Alliata/Principe”4:
«Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunziò che avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbiville si mise in agitazione.
Bilbo era estremamente ricco e bizzarro e, da quando sessant’anni prima era sparito di colpo, per ritornare poi inaspettatamente, rappresentava la meraviglia della Contea. Le ricchezze portate dal viaggio erano diventate leggendarie, e il popolo credeva, benché ormai i vecchi lo neghino, che la Collina di Casa Baggins fosse piena di grotte rigurgitanti di tesori. E, come se ciò non bastasse, ad attirare l’attenzione di tutti contribuiva la sua inesauribile, sorprendente vitalità. Il tempo passava lasciando poche tracce sul signor Baggins: a novant’anni era tale e quale era stato a cinquanta; a novantanove incominciarono a dire che si manteneva bene: sarebbe stato più esatto dire che era immutato. Vi erano quelli che scuotevano la testa, borbottando che aveva avuto troppo dalla vita: non sembrava giusto che qualcuno possedesse (palesemente) l’eterna giovinezza e allo stesso tempo (per fama) ricchezze inestimabili.
“Sono cose che dovremo scontare”, dicevano; “non è secondo natura, e ci porterà dei guai!”.»
Così nella traduzione di Ottavio Fatica5:
«Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunciò che presto avrebbe festeggiato il suo undicentesimo compleanno con una festa oltremodo fastosa, i commenti e i fermenti a Hobbiton si sprecarono.
Bilbo era ricchissimo e alquanto stravagante e, fin dalla straordinaria sparizione, seguita dal ritorno inaspettato, era stato per sessant’anni il prodigio della Contea. Le ricchezze riportate dai viaggi erano ormai diventate una leggenda locale e secondo la credenza popolare, inutilmente smentita dagli anziani, la collina di Casa Baggins era piena di gallerie imbottite di tesori. E se questo non bastava a dargli fama, a stupire era il vigore inesausto. Il tempo passava, ma il signor Baggins non sembrava risentirne più di tanto. A novant’anni era più o meno come a cinquanta. A novantanove iniziarono a definirlo ben conservato: con immutato ci sarebbero andati più vicino. C’era chi scuoteva la testa convinto che il troppo stroppia: non sembrava giusto che qualcuno possedesse una giovinezza (manifestamente) perpetua e al tempo stesso una ricchezza (verosimilmente) inesauribile.
“Toccherà scontarla,” dicevano. “Non è naturale e sarà fonte di guai!”»
È evidente che ci si trova a due modi di traduzione completamente diversi. Nella traduzione “Alliata/Principe” si mira a costruire un libro in lingua italiana, così come chiarito da Belloc: «Il fine di una traduzione è la produzione di un’opera in una certa lingua»; così, «a party of special magnificence» diviene «una festa sontuosissima» e «there was much talk and excitement in Hobbiton» è tradotto con «tutta Hobbiville si mise in agitazione». La frase è piana, scorrevole e attinge a costrutti tipici dell’italiano, come i superlativi assoluti e le locuzioni idiomatiche (“si mise in agitazione”).
Ottavio Fatica invece traduce «a party of special magnificence» con «una festa oltremodo fastosa» e «there was much talk and excitement in Hobbiton» con «i commenti e i fermenti a Hobbiton si sprecarono.» La frase tenta di ricostruire in italiano il costrutto inglese, parola per parola, anche ricorrendo a traducenti inusuali nella lingua di destinazione; il “fasto”, inoltre, è connotato inevitabilmente da riverberi di nobiltà; rimanda a regge e castelli (non certo ad un’abitazione hobbit). Del pari, conservare la distinzione in due parole distinte (“talk and excitement” / «i commenti e i fermenti») produce un effetto quasi comico, dal momento che i «fermenti» hanno una connotazione alimentare: si riferiscono al latte, al vino, alla pasta (e soltanto raramente e in senso figurato sono talvolta utilizzati con riferimento a valori o istanze presenti nella società).
Come scrive Belloc, occorre prestare attenzione non solo alla connotazione di una parola ma, anche, che la stessa non abbia assunto col tempo un significato completamente diverso nella lingua di destinazione: «la più semplice parola può suggerire ingiuria, rabbia o rifiuto in una lingua e non in un’altra. Si può affermare che la parola vache significhi cow ma proprio il suono di questa vocale lunga vache ha portato al suo uso come un termine di disprezzo particolarmente violento e che suscita il riso solo a causa della sua violenza.»
La frase successiva: «Bilbo was very rich and very peculiar, and had been the wonder of the Shire for sixty years, ever since his remarkable disappearance and unexpected return.» denota differenze ancora maggiori.
Nella traduzione “Alliata/Principe” si legge: «Bilbo era estremamente ricco e bizzarro e, da quando sessant’anni prima era sparito di colpo, per ritornare poi inaspettatamente, rappresentava la meraviglia della Contea»: la traduzione è chiarissima e inequivocabile, gli aggettivi “ricco” e “bizzarro” sono resi allo stesso grado come in originale; non vi è traccia di forzatura e la costruzione della frase segue quella italiana.
Nella traduzione di Ottavio Fatica si legge: «Bilbo era ricchissimo e alquanto stravagante e, fin dalla straordinaria sparizione, seguita dal ritorno inaspettato, era stato per sessant’anni il prodigio della Contea.»: la prima cosa che si nota è che i due aggettivi riferiti a Bilbo sono messi su piani diversi; Bilbo era sì “ricchissimo” ma solo “alquanto stravagante” (ossia era più ricco che stravagante), cosa che altera il senso dell’originale di Tolkien; la seconda cosa che salta inevitabilmente agli occhi è la costruzione contorta, in lingua italiana, della frase. Il traduttore ci informa che Bilbo era sparito e ricomparso e, soltanto in ultimo, ci spiega che la sua sparizione era occorsa sessant’anni prima; occorre rileggere almeno due volte la frase per comprenderla. A proposito posiamo citare ancora Belloc: «Tale confusione deve essere evitata (…) affinché (…) uno non cada, nella propria lingua, in un ordine insolito, in strani neologismi ed espressioni metaforiche la cui forza è un luogo comune per lo straniero ma una novità grottesca per noi.»
La frase originale di Tolkien: «There were some that shook their heads and thought this was too much of a good thing» è poi un altro esempio della differenza fra le due traduzioni.
Nella traduzione “Alliata/Principe” si legge: «Vi erano quelli che scuotevano la testa, borbottando che aveva avuto troppo dalla vita»: la traduzione ancora una volta ha una chiarezza espositiva cristallina, conserva il tono medio della narrazione e ben riassume i timori degli altri hobbit con un’espressione che è tipica dell’italiano.
Nella traduzione di Ottavio Fatica, invece, la frase è resa così: «C’era chi scuoteva la testa convinto che il troppo stroppia»: qui la traduzione utilizza una frase sì idiomatica ma attinta di peso da un registro linguistico molto più basso di quello usato dal narratore, che sta sì riportando un discorso indiretto ma lo forgia secondo la propria sensibilità. Ancora una volta possiamo citare Belloc, che critica tanto chi abbellisce un testo quanto reputa fatale per una buona resa «l’errore opposto, di rendere ciò che era nobile nell’originale in qualcosa di vile».
Abbiamo preso in esame l’inizio del primo capitolo del libro, esaminando frase per frase le differenze fra le traduzioni: differenze che si perpetuano per tutto il libro («La Compagnia dell’Anello»), ed abbiamo sorvolato sul latinismo «undicentesimo» utilizzato da Ottavio Fatica per rendere l’originale «eleventy–first» (letteralmente «centodiecieunesimo»), che nella “Alliata/Principe” è tradotto semplicemente e correttamente come «centoundicesimo» mentre Ottavio Fatica traduce «undicentesimo», utilizzando un latinismo effettuando un calco su undecentum, che però vuol dire novantanove, non centoundici!
Prenderemo in esame ancora un paragrafo tratto dal capitolo III – “Three is company” (“In tre si è in compagnia” secondo l’Alliata/Principe, “Tre è il numero giusto” secondo Fatica)
«Frodo stripped the blankets from Pippin, and rolled him over, and then walked off to the edge of the wood. Away eastward the sun was rising red out of the mists that ley thick on the world. Touched with gold and red the autumn trees seemed to be sailing rootless in a shadowy sea.»
Così nella traduzione “Alliata/Principe”:
«Frodo tirò la coperta di dosso a Pipino, voltandolo a pancia all’aria, quindi fece quattro passi fino al margine del bosco. Lontano, a oriente, il sole rosso si levava dalla nebbia che copriva densa il paesaggio. Gli alberi autunnali, pennellati d’oro e di carminio, parevano navigare senza radici in un mare d’ombra.»
Così nella traduzione di Fatica:
«Frodo strappò la coperta di dosso a Pippin, ribaltandolo a pancia all’aria, e poi si avviò fino al limitare del bosco. In lontananza, a oriente, il sole si levava rosso sulla fitta coltre di nebbia stesa sul mondo. Pittati d’oro e rosso, gli alberi autunnali sembravano salpare privi di radici in un mare umbratile.»
Nella traduzione “Alliata/Principe”, per la frase «Touched with gold and red the autumn trees seemed to be sailing rootless in a shadowy sea.» troviamo applicata la formula di Belloc: “il traduttore deve essere libero da limitazioni meccaniche (…) (dalla) limitazione di forma” nel produrre un’opera in italiano, con la traduzione: «Gli alberi autunnali, pennellati d’oro e di carminio, parevano navigare senza radici in un mare d’ombra.» In effetti, qui ci troviamo dinanzi ad un passo dalla poeticità incantevole dell’originale, e l’espressione “d’oro e di carminio” rende perfettamente la luce del sole che illumina di rosso vivo gli alberi autunnali, in contrasto con le nebbie in cui paiono navigare privi di radici. La traduzione scorre perfettamente in italiano e rende al meglio la poeticità di Tolkien. «Questa è traduzione. Questa è proprio l’essenza dell’arte: la risurrezione di una cosa straniera in un corpo nativo; non il rivestirlo di abiti nativi ma il dargli carne ed ossa nativi.» (Belloc, op. cit.)
Nella traduzione di Fatica, nuovamente troviamo, citando Belloc, «l’errore opposto, di rendere ciò che era nobile nell’originale in qualcosa di vile»: «Pittati d’oro e rosso, gli alberi autunnali sembravano salpare privi di radici in un mare umbratile.» Ciò avviene sia con l’immissione nel testo del termine «pittati», dialettale e desueto, sia con un’incomprensibile «salpare», dando un’idea di movimento ed allontanamento malinconico che appiattisce il contrasto fra il colore vivo e la nebbia sottostante. Infine, «umbratile», ha una connotazione avulsa dal contesto, essendo d’uso prettamente letterario e desueto, là dove la descrizione procede con una semplice e splendida concinnità.
In conclusione
Mentre la traduzione “Alliata/Principe”, pur non essendo esente da difetti, procede scorrevole, piacevole e con un’ottima aderenza all’originale, quella di Ottavio Fatica, spregiando le regole base della traduzione, non solo tende a rivestire di abiti italiani la costruzione inglese ma, ancor più, rende «ciò che era nobile nell’originale in qualcosa di vile» e, questi, sono elementi ricorrenti in tutta la traduzione, di cui abbiamo dato solo un paio di esempi al fine di rendere idea del pessimo lavoro svolto, che risulta quanto mai distante dall’originale, ed affetto dai peggiori vizi della traduzione, così come descritti nell’opera di Hilaire Belloc.
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Note
1 - Tutte le citazioni dell'opera sono da «Sulla traduzione», Hilaire Belloc, Ed. Morcelliana, Brescia (Italia) - Traduzione di Elena Olivari.
2 - «Nerval, il canto di Loreley» di Davide Gorga, pubblicato su Libero Pensiero il 15 settembre 2014 - https://www.liberopensiero.eu/15/09/2014/varie/nerval-canto-loreley/
3 - Edizione originale di riferimento: «The Lord of the Rings», J.R.R. Tolkien, 50th anniversary one-volume edition, Ed. Houghton, Mifflin, Harcourt, New York (USA).
4 - «Il Signore degli Anelli (I) La Compagnia dell’Anello», J.R.R. Tolkien, collana “Libri ORO”, Ed. Bompiani, Milano (Italia) – traduzione di Vicky Alliata di Villafranca.
5 - «La Compagnia dell’Anello», J.R.R. Tolkien, Ed. Bompiani, Milano (Italia) – traduzione di Ottavio Fatica.
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