Sistemi Dualistici A Giorgia Zunino, |
Sistemi Dualistici
- Introduzione
I - Teoria del centro di percettività
II - Considerazioni generali sul monismo fenomenico
III - Assurdi gnoseologici
IV - Sistemi dualistici
La presente trattazione si occupa solo ed esclusivamente del mondo sensibile. Non vuole quindi essere una trattazione metafisica. Anche quando vengono discussi problemi quali la libertà del volere, o il determinismo, questi vengono sempre indagati per quanto riguarda i loro aspetti fenomenici, senza la pretesa di scoprire nulla sulle "cose in sé".
L'impossibilità di conoscere effettivamente i noumeni è d'altro canto ribadita nel secondo capitolo, nel quale vengono anche esaminati i vari modi in cui è possibile che il fenomeno e la realtà noumenica ad esso retrostante si rapportino tra loro.
Per quanto riguarda il procedimento dimostrativo delle tesi qui esposte, va fatto notare che esso è assolutamente analitico e a priori, e non attinge mai ai dati d'esperienza, basandosi unicamente sulla semplice esistenza dei fenomeni, e fondando su questo assunto tutta la seguente dimostrazione.
Ora, poiché una dimostrazione del genere non poggia su dati empirici, non possiamo certo aspettarci che essa ci dica come effettivamente si presenta il sensibile.
Tuttavia, da essa possiamo invece ragionevolmente attenderci che ci esponga come il sensibile non può assolutamente essere -il che significa molto più di quanto non si creda.
Una volta scartate le ipotesi in sé stesse contraddittorie, e per questo impossibili a priori, si potrà passare a prendere in considerazione le ipotesi che siano state giudicate possibili (non già reali).
Ottenuta una ipotesi possibile (o più ipotesi) sul fenomenico, potremo poi confrontarla con i dati empirici, per giudicare in quale misura essa descriva la realtà effettiva1.
Ma in primo luogo è indispensabile procedere all'analisi suddetta, e distinguere le ipotesi contrarie alla nostra ragione, (ossia tali che possiamo essere certi che il fenomeno non si presenterà mai, nel suo insieme, con quelle caratteristiche) da quelle invece possibili per essa.
In questo breve saggio si suddividono in due gruppi le ipotesi formulabili sul mondo sensibile: da un lato, quelle che presumono il sensibile riconducibile ad un unico principio fenomenico (monismo fenomenico); dall'altro, quelle che riconducono il sensibile a due o più principi (sistemi dualistici).
In primo luogo verrà dimostrata l'impossibilità a priori della teoria monista di tipo determinista 2.
Il fatto di dimostrare assurda la suddetta teoria non prova di per sé che sia vera l'opposta teoria dualista.
Tuttavia, se noi riusciremo a provare che la teoria dualistica è possibile, e se inoltre essa non verrà contraddetta dall'esperienza, sarà lecito affermare quanto segue: che la teoria dualistica è quanto di meglio disponiamo per descrivere il sensibile.
Note all'Introduzione
1 - Tale sistema ipotetico-deduttivo ci proviene direttamente da Cartesio. - Torna al testo
2 - Una teoria monista di tipo indeterministico sarebbe senz'altro possibile in linea teorica, ma condurrebbe ad un totale scetticismo riguardo la possibilità di una conoscenza scientifica o comunque razionale del sensibile. Per questo, non verrà presa in considerazione. (D'altro canto, una volta applicata all'esperienza, cozzerebbe inevitabilmente contro il determinismo di tipo causale che alcuni fenomeni mostrano di avere, e al quale giustamente si appellano i deterministi). - Torna al testo
1 - TEORIA DEL CENTRO DI PERCETTIVITÀ
Premessa e definizione
"I fatti indubitabili di Cartesio sono i suoi propri pensieri, usando pensiero nel senso più ampio possibile. 'Io penso' è la sua premessa fondamentale. Qui la parola Io è in realtà illegittima: egli avrebbe dovuto scrivere la sua premessa fondamentale nella forma 'Ci sono dei pensieri'. La parola Io è grammaticalmente comoda, ma non descrive un dato." B. Russell"1.
Queste frasi sono emblematiche di un errore di fondo che grava pesantemente sulla filosofia moderna, e non rendono affatto giustizia al pensiero cartesiano. Nelle righe seguenti cercherò di esporre chiaramente le mie argomentazioni in proposito.
"Io penso, dunque sono.": qui la parola Io non è un artificio linguistico, come sostiene invece Russell. Non è illegittimo presupporre un ente unico cui si riferiscano tutti i pensieri. L'espressione si riferiscano è usata in senso lato. Qui di seguito si spiegherà che cosa s'intende precisamente con essa.
Noi possiamo mettere in relazione i pensieri con l'ente chiamato da Cartesio Io in due modi.
Nel primo modo, possiamo intendere che l'Io produca i pensieri.
Nel secondo, che l'Io percepisca i pensieri, senza necessariamente produrli.
Ora, se è ammissibile, in linea teorica, che i pensieri siano prodotti da una molteplicità di enti, non è invece ammissibile che i pensieri non siano percepiti da un ente unico. Tale ente può essere a sua volta complesso, ossia composto di vari enti correlati, ma per il momento sorvolerò su tale questione, riservandomi di ritornarvi in seguito.
Infatti, se non esistesse un ente che percepisse i pensieri, ossia fosse cosciente di essi, non sarebbe neppure possibile enunciare la frase "Ci sono dei pensieri". "Ci sono" molte cose, ma finché noi non le percepiamo, la loro esistenza non ci è nota, ed anzi le parole ci sono non hanno un significato preciso.
Infatti, che cos'è l'esistenza?
L'esistenza è la proprietà in grazia della quale un soggetto è in grado di percepire, ed un oggetto di essere percepito2.
Difatti, non si è mai dato di predicare l'esistenza di un oggetto -se non in linea teorica- a meno che esso non fosse percepito, o di un soggetto, a meno che non fosse in grado potenzialmente di percepire; ed anche quando si ipotizza che un oggetto esista, anche qualora non se ne faccia esperienza né diretta né indiretta, si dà per scontato che esso possa divenire oggetto di esperienza, ossia possa essere percepito.
Dire che esiste una stella3, od un altro oggetto stellare, a dieci miliardi di anni luce da noi, non ha molto senso, finché qualcuno non ne vede la luce con un telescopio, o non vede gli effetti che essa ha prodotto su una lastra fotografica, o non ne rileva le emanazioni di radioonde; ossia finché non lo percepisce, direttamente o indirettamente, ossia ancora finché non ne verifica l'esistenza con l'esperienza.
Ne discende che, da un punto di vista operativo, ciò che a priori non può essere percepito4 non esiste.
È ovvio che un soggetto percipiente possa contemporaneamente essere percepito come fenomeno da un altro soggetto.
La distinzione tra soggetto e oggetto è dunque relativa, così come lo sono quelle tra spirito e materia e tra anima e corpo. Esiste però un punto che assolutizza il relativo: la coscienza. È la coscienza, ed intendo dire la coscienza individuale, un principio assoluto.
Si può dire che la Terra giri intorno al Sole, o che il Sole giri intorno ad essa; che questa ruoti sul proprio asse, o che siano le stelle fisse a ruotare, oltre ad avere moti secondari (proprio, radiale, ecc.): tutto è relativo, ma se assumo la coscienza come fattore assoluto, allora la Terra è il sistema di riferimento più usuale (quando ci spostiamo da Roma a Firenze non calcoliamo il nostro spostamento rispetto alle stelle fisse) e posso considerarla immobile al centro dell'Universo -ossia assumerla come sistema di riferimento-.
Ora siamo in grado di enunciare che cosa s'intende legittimamente con il termine Io nella filosofia di Cartesio.
Io è un centro di percettività.
Non si può dire che l'Io sia un fascio di percezioni, giacché le percezioni non esisterebbero -per definizione- senza un ente percipiente, ossia un centro di percettività.
Altrimenti, si potrebbe dire con Hobbes, che criticava proprio DesCartes per l'uso improprio di alcuni termini, che se ciò che percepisce è una percezione, ciò che pensa è un pensiero, e ciò che passeggia è una passeggiata (Cartesio preciserà a questo riguardo che egli usava la parola "pensiero" in due sensi diversi, e quindi non confondeva affatto il soggetto pensante con i suoi pensieri).
Esistenza
Quando Cartesio enuncia il suo principio "Cogito, ergo sum", usa il termine cogito (=penso) in due sensi diversi che si assommano. In primo luogo, intende dire che Io percepisco dei pensieri; in secondo luogo, che Io produco dei pensieri.
Il postulato fondamentale di Cartesio, dunque, è l'identità dell'ente che percepisce i pensieri e di quello che li produce.
La produzione e la percezione dei pensieri sono due attività diverse.
Vedremo in seguito se il postulato fondamentale di Cartesio sia fondato.
Ora ritorniamo alle affermazioni di Russell. Che i "fatti indubitabili" non solo di Cartesio, ma di tutta la filosofia razionale, debbano essere i pensieri, è fuori discussione; altrimenti, potremmo molto più utilmente impiegare il nostro tempo per coltivare patate.
La parola Io ora è perfettamente legittima e coerente, ed anzi implicita nell'assunzione dei pensieri quali "fatti primi".
Dunque la premessa di Cartesio può essere riscritta nella forma: "Esiste un centro di percettività che percepisce i pensieri".
Non so se nessuno si sia mai accorto interamente di quanto sia grande il mistero della coscienza. Essa è il principio in base al quale il mondo riceve le sue rappresentazione (fenomeni), eppure i filosofi si sono più preoccupati di studiare le strutture delle percezioni (le "cose"), che non ciò che le percepisce. Essi hanno addirittura invertito il rapporto, facendo dipendere il soggetto percipiente dalle sue percezioni; prendendo quale base di partenza l'esperienza, hanno dimenticato che, affinché essa sia possibile, deve essere preceduta (in senso logico) da un soggetto percipiente.
Il soggetto percipiente è il postulato; l'esperienza un suo teorema. Non si può prendere per valido un teorema rifiutando il postulato su cui poggia il teorema stesso.
Trascendenza
Quando io osservo un fenomeno, devo sempre ricordarmi che ciò che è presente alla mia mente in quel dato istante è per l'appunto un fascio, un insieme di percezioni. Non dico che dell'esperienza io non possa servirmi per conoscere il mondo esterno; tutt'altro. Tuttavia devo innanzitutto valutare i limiti intrinseci a tale metodo di conoscenza.
Ciò che cade sotto i miei sensi, direttamente, io lo chiamo materia.
Devo tuttavia stabilire se ciò che io percepisco direttamente tramite la sensibilità esaurisce tutto ciò che esiste.
Ciò che non cade direttamente nella mia sensibilità, ma che ciononostante può influire sui fenomeni da me osservati, io lo chiamo immateriale. Esso può dunque essere osservato indirettamente.
Inoltre, devo ancora distinguere fra ciò che, pur essendo immateriale, risulta deterministico -entro certi limiti- o, comunque, legato deterministicamente ad una struttura materiale, e ciò che invece è indeterministico. Quest'ultimo, io lo chiamo immateriale in senso stretto.
Qui di seguito cercheremo innanzitutto se l'Io, inteso quale centro di percettività, sia qualcosa di puramente materiale, oppure se sia immateriale in senso stretto (trascendente)5.
Per appurarlo, procederemo ad un esperimento ideale6.
È possibile ipotizzare che, una volta che io sia morto, un abilissimo scienziato riesca a sintetizzare nuovamente tutto il mio corpo, -incluso naturalmente il sistema nervoso centrale7, dal primo all'ultimo neurone- di modo da ottenerne una copia perfetta fin nei più minuti dettagli; in altre parole, un clone. Anzi, più di un clone, poiché questo organismo, essendo identico al mio corpo, dovrebbe avere immagazzinate nelle cellule cerebrali tutte le mie esperienze, i miei ricordi; tutto quanto è contenuto nel mio cervello, in quanto ogni singola cellula del nuovo organismo sarebbe identica a quella corrispondente del mio corpo, dal primo all'ultimo atomo. A questo punto, potrei io affermare di essere risorto?
Vediamo.
Assumiamo come vera la tesi secondo la quale, una volta rigenerata la mia struttura fenomenica, io sarei risorto, ossia il mio centro di percettività si troverebbe nella nuova (ma identica alla vecchia) struttura.
Ora supponiamo che l'abile scienziato abbia creato non una, ma due strutture materiali identiche alla mia, e, quindi, identiche fra loro8.
In tal caso, dove si situerebbe il mio centro di percettività? In quale corpo io vivo? O, se si preferisce, quale corpo "sono"? Se mi trovo, quale centro di percettività, nella prima struttura, allora posso uccidere la seconda; posso anche farne una autopsia. Il che significa che posso prenderne coscienza come di un oggetto esterno.
Se invece io mi trovo nella seconda (o "sono" la seconda), significa che prenderò coscienza delle sensazioni (impulsi nervosi) di essa, e non della prima; ossia se la seconda struttura materiale ha davanti agli occhi un quadro di Monet, Io vedrò: "Impressione: Sole nascente", anche se davanti agli occhi della prima si trova la fotografia di un bel paesaggio alpino.
Volendo poi ammettere, in linea del tutto teorica, che tra due strutture materiali siffatte esista una fortissima telepatia, resterebbe sempre il fatto che Io vedrei il quadro di Monet, ed esperirei i pensieri dell'altra struttura materiale -quand'anche si trattasse di sensazioni- indirettamente, cioè come di oggetti esterni.
Questo significa che il mio centro di percettività, quand'anche fosse presente in una delle strutture fenomeniche, prenderebbe coscienza dell'altra da un punto di vista esterno.
Ma, se una determinata struttura fenomenica genera il mio centro di percettività, esistendo più strutture identiche, tutte devono generarlo, il che è assurdo.
Dunque la tesi che avevamo assunto come vera, secondo la quale l'Io, il centro di percettività, sarebbe legato deterministicamente ad una particolare strutturazione del fenomeno, è assurda.
Resta dimostrata per assurdo l'antitesi, che considera l'Io "immateriale in senso stretto", ovverosia non legato deterministicamente ad una strutturazione del fenomeno.
Quindi, l'Io, inteso quale centro di percettività, è trascendente, in quanto va oltre ciò che si può esperire; trascende il fenomeno.
E quindi, ogni indagine riguardo all'Io che parta da considerazioni inerenti al fenomeno è assurda, e priva di validità9.
Note al I Capitolo
1 - "Storia della filosofia occidentale", Bertrand Russell, Mondadori, 1979 - Torna al testo
2 - La definizione dell'esistenza qui enunciata è puramente operativa, cioè volta a stabilire un criterio di discriminazione tra ciò che esiste e ciò che non esiste all'interno del sensibile, e quindi a livello puramente fenomenico. Non è una definizione metafisica, ma per la nostra dimostrazione è sufficiente. - Torna al testo
3 - Il fatto che io ricorra ad esempi tratti dall'esperienza non toglie nulla all'analiticità né all'apriorità della dimostrazione, la quale potrebbe benissimo esserne priva, senza perdere nulla del suo valore - ma sicuramente molto della sua chiarezza espositiva. - Torna al testo
4 - né percepire (ovviamente). - Torna al testo
5 - L'indeterminismo è quindi ciò che distingue quanto è trascendente, cioè immateriale in senso stretto. - Torna al testo
6 - Si dice "esperimento ideale" un procedimento tecnicamente irrealizzabile, ma concet-tualmente possibile. - Torna al testo
7 - Vedi la nota 3. - Torna al testo
8 - L'unico modo di inficiare questa argomentazione è quello di negare la proprietà transitiva dell'uguaglianza; ma a questo punto si dovrebbe negare validità a tutto il sistema delle scienze, poiché si dovrebbe ammettere, per esempio, che il sistema
ammetta soluzioni. - Torna al testo
{
x=y
y=z
x≠z
9 - Questo implica che le indagini che, partendo da considerazioni di ordine anatomo-fisiologico vogliano estendere la loro validità non solo all'aspetto fenomenico dell'uomo, ma anche al suo Io, e quindi all'ambito della metafisica, sono prive di qualsiasi validità, e, pertanto, assurde. - Torna al testo
Osservazioni sul Capitolo 1
1 - Poiché Io sono un centro di percettività, e postulo, nella mia condotta etica, che anche gli altri esseri umani lo siano, ed inoltre poiché è dimostrato che tale centro di percettività non è legato deterministicamente ad una struttura materiale (fenomenica), è del tutto inutile ricercarne la presenza tramite analisi fisiologiche.
Questo significa che esso potrebbe già essere presente tanto nel feto quanto nell'embrione umano.
E se, per quanto riguarda la morte, noi possediamo una serie di indizi empirici che ci consentono di supporre con un consistente grado di certezza quando in un corpo non torneranno a manifestarsi quei fenomeni indicativi della presenza dell'Io, per quanto riguarda la gestazione e la nascita, l'esperienza ci insegna solamente che in qualsiasi embrione umano potrà svilupparsi l'autocoscienza.
Sono considerazioni che dovrebbero far riflettere.
2 - Io non sono il mio corpo. Osservazione importante e, a differenza della precedente, esclusivamente aprioristica.
2 - CONSIDERAZIONI GENERALI SUL MONISMO FENOMENICO
Per monismo fenomenico s'intende un sistema in cui un solo principio fenomenico è sufficiente per spiegare tutti gli eventi riscontrabili nel sensibile.
Essendo stato già accantonato il monismo di tipo indeterminista1, non ci resta che esaminare quello di tipo deterministico.
In questo sistema tutto ciò che cade, direttamente o indirettamente, nella mia sensibilità, o che comunque può influire sui fenomeni osservabili, deve essere deterministico, ossia comportarsi sempre allo stesso modo in situazioni fisiche uguali. Dunque, il principio fenomenico cui ricondurre tutto il sensibile sarebbe un ente complesso, ma omogeneo al suo interno grazie al carattere di determinismo che dovrebbe sempre mostrare2. Esisterebbero leggi fisiche che regolerebbero gli eventi fenomenici ordinando il sensibile secondo un ordine razionale.
In altre parole, il principio ultimo a livello fenomenico sarebbe riconoscibile grazie al determinismo di tipo causale che dovrebbe sempre mostrare. In tal caso il fenomeno ultimo sarebbe "estraibile" intellettualmente dall'apparente molteplicità dei fenomeni.
A prima vista questo sistema sembrerebbe funzionare molto bene, ed accordarsi discretamente con i dati d'esperienza; ed invece proprio analizzandolo in profondità ancor prima di qualsiasi esperienza che possa confermarci o disilluderci circa la sua validità reale, ci accorgiamo ben presto che esso nasconde assurdi gnoseologici insormontabili che ci assicurano sulla impossibilità logica di un tale sistema. Questi assurdi gnoseologici saranno trattati nel terzo capitolo; ma prima di addentrarci in essi, converrà fissare alcune idee sui rapporti che si possono pensare intercorrenti tra i fenomeni ed i noumeni, e sul conseguente problema della percezione.
Secondo Cartesio, il fenomeno riprodurrebbe fedelmente la realtà noumenica (veridicità divina); ossia la nostra rappresentazione del mondo corrisponderebbe, una volta epurata dagli elementi contingenti, alla realtà ultima (noumeno kantiano). La vera sostanza, la "res" non si potrebbe cogliere direttamente, senza un'indagine intellettuale che la dispogliasse dalle contingenze, isolando ciò che vi è di fisso ed ineliminabile, l'estensione. Quindi, per Cartesio, il noumeno sarebbe ricavabile per astrazione intellettuale dal sensibile, ed i corpi sarebbero "veramente" estesi.
Accanto a questo primo noumeno avremmo poi una seconda "res", la res cogitans, la cui esistenza ci è assicurata dal "cogito", ed infine il noumeno dal quale le altre due sostanze ricevono la loro esistenza, cioè Dio3.
In Kant, i noumeni sono inconoscibili. I fenomeni, nostre rappresentazioni di essi, essendo informati dai nostri elementi a priori, devono necessariamente ed universalmente mostrare certe caratteristiche, come la causalità di tipo deterministico. Anche l'uomo, in quanto fenomeno, deve sempre presentarsi all'osservazione come un ente deterministico. La libertà del volere, o libero arbitrio, si esercita a livello dei noumeni, atemporali, in cui "non accade nulla" (I. Kant) (anche se l'esercizio di questa libertà ci è affatto oscuro, dato che, di fatto, le mie azioni sono predeterminate "à jamais" dal momento in cui inizio ad esistere come uomo in carne ed ossa). Il fenomeno kantiano può senz'altro essere considerato un monismo determinista.
Per Berkeley, la materia (res extensa) non esiste. Unici noumeni realmente esistenti sono Dio ed i soggetti pensanti, i fenomeni essendo solo fasci persistenti di percezioni, semplici modificazioni della sensibilità dei soggetti pensanti senza una retrostante realtà noumenica. Questa teoria potrebbe essere considerata, se si esclude dal conteggio dei noumeni la sostanza divina (come del resto si è fatto nel Dualismo cartesiano), come un monismo (metafisico) spirituale.
Un ultimo tipo di legame ipotizzato tra il fenomeno e il noumeno può considerarsi sintetizzato nelle seguenti frasi di B. Russell: "Se c'è qualcosa che si può chiamare 'percezione', ciò dev'essere in un certo senso un effetto dell'oggetto percepito, e deve più o meno assomigliare all'oggetto, se dev'essere una fonte di conoscenza dell'oggetto stesso". A quest'ultimo modo di vedere le cose si può obiettare facilmente che io non entro mai in contatto con l'oggetto direttamente, ma sempre e solo con il suo fenomeno, e con esso devo relazionarmi, non già con la realtà noumenica; io stesso, infatti, interagendo con gli oggetti tramite il corpo, non oltrepasso mai la sfera del fenomenico.
In qualsiasi caso, le tesi sopra enunciate mettono in luce tutta la complessità del problema della percezione. Che "qualcosa" chiamato "percezione" esista mi sembra fuor di dubbio, poiché i fenomeni sembrano poter essere spiegati solo come una modificazione della sensibilità del soggetto pensante da parte degli oggetti. Negare la realtà extramentale dei noumeni, d'altro canto, come fa Berkeley, non altera in nessun modo il fenomeno, né tantomeno le ipotesi che noi possiamo costruire per descrivere il sensibile.
Quale che sia il meccanismo della percezione, tuttavia, noi ci troviamo di fronte al fatto del fenomeno, e con esso dobbiamo confrontarci, e verificare se sia possibile elaborare una descrizione non autocontraddittoria di esso.
Note al II Capitolo
1 - Vedi Introduzione, nota 2. - Torna al testo
2 - Un esempio tratto dall'esperienza potrebbe essere il seguente: in una reazione nucleare 1 uma si trasforma sempre in 931,5 MeV (valore approssimativo), dal che si lascerebbe dedurre che massa ed energia sono due facce diverse di un unico principio fenomenico. - Torna al testo
3 - Il dualismo cartesiano è metafisico; noi invece proponiamo un sistema dualistico per descrivere il mondo fisico. Era bene far notare questa differenza. - Torna al testo
Il monismo fenomenico di tipo determinista ha in sé due assurdi non trascurabili.
Il primo assurdo è quello descritto nel I capitolo: se io sono legato deterministicamente ad una struttura fenomenica, allora più strutture identiche devono ugualmente, tutte, generare il mio Io, il che è assurdo. Dal che si deduce che Io non sono deterministico, e quindi sono eterogeneo rispetto al restante fenomeno, che si è postulato essere deterministico. Questo significherebbe che il fenomeno non sarebbe più uno, ma duplice: per una parte deterministico; per l'altra indeterministico.
A questo ragionamento si potrebbe giustamente obiettare che Io, inteso quale condizione necessaria della mia esperienza1 entro in gioco come noumeno, e non come fenomeno presente a me stesso. Io sarei quindi un noumeno che si manifesta sotto la forma di un fenomeno uguale a tanti altri (strutture identiche della materia), ma che è intimamente diverso. Le differenze noumeniche, in questo caso, non si ripercuoterebbero in differenze fenomeniche. Poiché non sappiamo nulla sul noumenico, questa ipotesi, per quanto strana e improbabile, potrebbe essere accettabile. Ogni ente elementare fenomenico, come il mio Io fenomenico, sarebbe paragonabile ad una carta da gioco di cui noi possiamo vedere dall'esterno solo il dorso, uguale a quello di tutte le altre carte, mentre ci resta nascosta la faccia (il noumeno), sempre diversa.
Ma è davvero possibile questo? È possibile che l'enorme ricchezza noumenica si esaurisca in piatto fenomeno privo di tali differenze; ossia, restando nel paragone, è possibile che nessuna carta sia "segnata"?
Occorre in primo luogo fare notare che, se l’ipotesi scettica dianzi avanzata fosse vera, tutta l’attività dell’Io risiederebbe nella semplice percezione di fenomeni deterministici: immagini, sensazioni e perfino pensieri in senso stretto non sarebbero né prodotti, né minimamente influenzati dall’Io, la cui unica funzione sarebbe quella di spettatore (è questo l’unico modo per non far crollare di schianto la teoria deterministica).
Qui di seguito appureremo se una tale teoria è possibile.
Assumiamo vera questa tesi. Si vedrà come questa assunzione conduce inevitabilmente a un altro assurdo, che, a differenza del primo, non può essere risolto, neppure con una teoria stravagante.
Finora abbiamo dimostrato che l’Io noumenico è un centro di percettività, un ente percipiente; ossia un ente che si modifica continuamente, presumibilmente a seconda del tipo di relazione che intercorre fra esso e l’oggetto percepito. Tuttavia, noi non abbiamo mai preso in considerazione una possibile libertà dell’Io noumenico esplicantesi a livello del fenomeno2 in una variazione dei dati sensibili. L’Io, come già detto, sarebbe spettatore di uno “spettacolo” fenomenico; di una serie di eventi che sono predeterminati. In questa serie sarebbero inclusi anche i pensieri, poiché essi sono presenti alla mia mente, e quindi percepiti come fenomeni, e parimenti tutte le azioni del corpo: cantare, scrivere o danzare. Questo fatto comporterebbe conseguenze alquanto spiacevoli nel campo della conoscenza, conseguenze che verranno esposte chiaramente, anche con l’ausilio di esempi empirici3.
Se il sensibile è deterministico, devono esistere leggi che esprimono il suo determinismo. Ma allora io devo conoscere ed esprimere queste leggi fisiche, e non solo per avere la possibile prova empirica delle mie ipotesi, ma anche per dare forma di concetti ad un’ipotesi che altrimenti resterebbe vuota. Supponiamo di avere enunciato un numero sufficiente di leggi. Qual è la validità che si può attribuire loro? Poiché i miei processi psichici, così come i miei mezzi espressivi, sono enti fenomenici, e quindi per ipotesi deterministici, ne risulta che l’elaborazione di una teoria fisica è determinata da nessi causali deterministici, e che il pensiero di una persona non potrebbe essere diverso da quello che è. Per cui, fra due persone che affermano tesi diverse contraddittorie non c’è modo di operare una scelta di validità, in quanto non è detto che un ente fenomenico elabori teorie più valide di un altro: ognuno è obbligato a riconoscere come vera una determinata tesi in base agli eventi fisici che determinano la scelta.
Si potrebbe ricorrere all’esperienza quale pietra di paragone ultima; tuttavia, se da un fenomeno una persona ricava una teoria del tutto diversa da quella di un’altra persona, come posso decidere quale delle due sia migliore, o quella che risponde di più al fenomeno, da un punto di vista obiettivo, anche se l’altra è massimamente contraria ad ogni consueta logica e ad ogni buon senso? Logica e buonsenso sono predeterminati, tanto i miei quanto quelli delle due persone che elaborano le due diverse teorie.
Per di più, va ricordato che anche quando noi optiamo per l’esperienza quale ultimo termine di paragone, noi operiamo una scelta che, proprio in quanto tale, risulta influenzata causalmente dagli eventi precedenti.
Inoltre, chi mi assicura della validità intrinseca del mio sistema logico? “ci sono uomini che cadono in abbagli e paralogismi ragionando anche intorno ai più semplici argomenti di geometria...(e)... io ero soggetto ad errare come ogni altro”4. O, più estesamente, chi mi assicura della validità intrinseca della logica in generale?
Nel determinismo non esistono principi assoluti; neppure il criterio del concorde giudizio di tutti coloro che io reputo soggetti percipienti, in quanto criterio che io scelgo in alternativa ad altri (ma la mia scelta, per ipotesi, non potrebbe essere diversa), ed inoltre in quanto anche gli altri sono soggetti come me all’errore.
Gli “errori” che si possono commettere utilizzando un tipo di logica anziché un altro (propriamente non si potrebbe parlare di errori, ma solo di differenze) sono evidenti nella pratica con strumenti programmabili, come i computer: se si inserisce un programma “sbagliato”, parimenti “sbagliati” (almeno per il nostro sistema logico) saranno i risultati.
Infatti, se noi, da una determinata serie di eventi, traiamo l’evidenza di una legge fisica, da che cosa ci viene questa evidenza, se non dalle leggi fisiche che determinano causalmente anche il nostro pensiero e che ci inducono a ritenere evidente un fatto?
Da quanto detto, risulta chiaro che il determinismo ha in sé un assurdo: le leggi che dovrebbero esprimere il suo determinismo non possono venire formulate! La premessa inficia -e distrugge- la validità gnoseologica di esse.
Analiticamente, lo scetticismo è contenuto nel determinismo.
Partendo dalla tesi determinista, ogni affermazione può essere ritenuta con ugual ragione tanto vera quanto falsa; per cui, non si possono enunciare con pretesa di validità proposizioni quali: “il mondo esiste oggettivamente”; “i giudizi della matematica sono analitici (o ‘sono sintetici a priori’)”; “2+2=4”; e neppure quali “un triangolo equilatero è un triangolo”. Difatti, anche quando noi diciamo: “alcuni giudizi (come gli analitici) hanno in sé tanta evidenza da dover essere ritenuti indubitabilmente veri”, questo non dimostra se non una predisposizione causale a ritenere veri questi giudizi. Ovviamente, quindi, non è possibile enunciare neppure la proposizione “il fenomeno è interamente determinista”, né, cosa ancor più importante, la proposizione disgiuntiva: “il fenomeno o (= aut) è interamente deterministico, o (= aut) in parte deterministico e in parte indeterministico”.
Quindi, assumendo come vera la tesi determinista si giunge a ritenere vere anche proposizioni assurde, ed in particolare quella che enuncia l’identità dei sistemi monista e dualista fenomenico.
Quindi si impone una scelta: o dichiarare il fallimento della ragione, o scartare come assurda la tesi monista determinista.
Note al III Capitolo
1 - Ossia quale centro di percettività. - Torna al testo
2 - Per la definizione della libertà a livello fenomenico, vedi il capitolo seguente. - Torna al testo
3 - Vedi nota 3 del Capitolo I. - Torna al testo
4 - R. Descartes “Discorso sul metodo”, parte IV, Laterza 1954. - Torna al testo
Premessa
Nel capitolo precedente si è dimostrata l’assurdità, e quindi l’impossibilità a priori della teoria che esprime il sensibile come funzione di un unico principio fenomenico deterministico. In questo capitolo verrà invece esposta la teoria dualistica del fenomeno.
Cartesio ipotizzava l’esistenza di due sostanze, la "res cogitans" e la "res extensa", a fondamento dell’esistente (oltre alla sostanza divina, dalla quale ricevono l’esistenza). Per analogia con questo sistema, si riprende il nome di Dualismo per indicare il presente sistema di descrizione del sensibile. Una differenza fondamentale, però, è che, mentre Cartesio voleva descrivere una realtà metafisica, noi ci riferiamo solo a quella fisica (fenomenica).
Enunciazione
Il primo principio fenomenico che invochiamo per la descrizione della realtà sensibile è il principio deterministico, intendendo con questo termine il determinismo di tipo causale. Include tutto ciò che costituisce o modifica i fenomeni mostrandosi costantemente deterministico nel senso “classico” (newtoniano e kantiano).
Il secondo principio è quello indeterministico. Include tutto ciò che modifica i fenomeni (non già costituendoli) secondo una libertà o secondo il cieco caso.
Causalità secondo la libertà
La causalità secondo la libertà non è un “concetto vuoto”, come sostiene invece Kant. Infatti egli1 afferma che, nel fenomenico, ogni evento deve necessariamente trovarsi in una serie causale infinita, ma non considera che i rapporti tra causa ed effetto sono tenuti a procedere secondo una legge che esprima il modo in cui l’effetto deve seguire la causa, e che quindi questa legge, che deve essere considerata la causa2 del modo di successione dei fenomeni3, non è ulteriormente causata da null’altro: la serie causale, in questo senso, si ferma4.
Noi non mettiamo in discussione il fatto che ogni evento fenomenico debba di necessità essere incluso in una serie causale infinita, ma neghiamo che le leggi fisiche siano tutte fisse ed invariabili. Ammettiamo che ve ne siano, per il principio deterministico; non che siano le sole.
Se noi assumiamo come necessario il principio secondo il quale ogni evento deve trovarsi in una serie causale, troviamo che invece il modo di successione degli eventi è contingente, poiché non c’è nessuna ragione per la quale alcune leggi debbano essere ed altre non essere5. Forse non è assolutamente necessario che una legge fisica fissa debba avere una causa che la faccia esistere a discapito di altre; tuttavia, per uniformità nel sistema di descrizione qui adottato, noi postuliamo che debba necessariamente esistere la causa suddetta, e diamo la seguente definizione:
la causa dell’esistenza di un determinato modo di successione degli eventi è detta volontà.
La volontà, essendo una causa prima, deve essere autodeterminantesi, deve cioè determinarsi da sola, senza l’intervento di nessuna causa, interna o esterna che sia. Il fatto che una volontà non necessiti di nessun’altra causa per determinarsi non significa (cioè non implica) che essa non sia stata creata: questo è un problema che qui non affronteremo.
Da quanto osservato sul processo di elaborazione delle conoscenze discende che se, per quanto riguarda il mondo in generale, noi possiamo ipotizzare gli eventi indeterministici o inesistenti o solamente casuali, per quanto riguarda invece il processo conoscitivo ed i mezzi espressivi della conoscenza, tali eventi devono necessariamente esistere e discendere da una causalità secondo la libertà, che sola può conferire ( è una condizione necessaria, ma non sufficiente) validità all’elaborazione della conoscenza. Con questo, noi inseriamo un elemento di libertà negli aspetti fenomenici che ci sono propri, quali il corpo.
I pensieri come fenomeni
Noi non presupponiamo più, come invece faceva Cartesio, l’influsso del pensiero sulla materia; supponiamo che l’Io noumenico modifichi in parte i processi di elaborazione dei pensieri, secondo la sua libertà che lo svincola dal determinismo causale, fino a renderli compatibili con la descrizione che gli eventi deterministici richiedono -per quanto rioguarda l’aspetto cognitivo- e con le azioni corporee osservabili -per quanto riguarda il comportamento-.
I pensieri, quindi, non sarebbero più eterogenei rispetto alla materia, ma fenomeni anch’essi, presenti all’Io al pari dei fenomeni sensoriali. Si può dire quindi che giustamente Cartesio includeva in una sola parola (“idea”) tanto i pensieri in senso stretto quanto la percezione sensoria.
Sistemi dualistici
A questo punto, sulla base di quanto è stato dimostrato in precedenza, è lecito costruire uno o più sistemi che integrino le parti dimostrate con elementi ipotetici, da verificare in seguito, al fine di allargare un poco la nostra conoscenza. Tali sistemi vengono detti sistemi dualistici.
Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, che la natura nel complesso non presenti alcun elemento di libertà se non negli uomini, i quali sarebbero i soli6 ad avere quindi la possibilità di elaborare conoscenze. Questa teoria ricorda la tesi cartesiana dell’”automatismo” della natura.
Viceversa, si può ipotizzare che tutta la natura sia soggetta, in misura più o meno spiccata, a forze e leggi fisiche libere (teoria romantica), dovute o ad un’unica Volontà della natura stessa, oppure a singole molteplici volontà, che si ritrovino, ad es., nelle piante, negli animali, o perfino nella materia inanimata, la quale mostra comunque (ce lo dimostra il principio di indeterminazione di Heisenberg) un minimo margine di casualità, la quale va distinta dalla libertà, pur essendo al pari di essa indeterministica.
Su questi sistemi dualistici si potrebbe fare un oceano di ipotesi, supposizioni ed osservazioni (parte delle quali sono raccolte nelle 'Osservazioni' a questo capitolo), ma io credo che la cosa più importante sia aver dimostrato l’impossibilità a priori della teoria determinista, e parimenti aver dimostrato la necessità di un elemento di libertà nell’elaborazione della conoscenza, aprendo così la strada alla formulazione dei sistemi dualistici.
Note al IV Capitolo
1 - Nella “Critica della Ragion Pura” - Torna al testo
2 - Cfr. la nota 2 del capitolo III. Il particolare valore equivalente di 1 uma potrebbe benissimo essere diverso da 931,5 MeV, così come potrebbe essere diverso il valore della velocità della luce nel vuoto. I modi di successione degli eventi sono infiniti, ma solo alcuni esistono di fatto (“ricevono realtà”). - Torna al testo
3 - Una legge fisica particolare può essere implicata da una più generale, ma esistono leggi prime inderivabili. - Torna al testo
4
Infatti:
...
¦—legge fisica
evento
¦—legge fisica
evento
¦—legge fisica
evento
¦—legge fisica
...
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5 - Si potrebbero quindi costruire infiniti Universi possibili, ciascuno dei quali rispondenti alle sue proprie leggi fisiche. Cfr. il pensiero di Leibniz a questo riguardo. - Torna al testo
6 - La teoria di un ente fenomenico già di per sé compiuto, cui si aggiunga un elemento di libertà, era stata presentata da Bernardino Telesio nel sec. XVI (“anima superaddita”). - Torna al testo
Osservazioni sul Capitolo 4
1 - In base a quanto dimostrato nei capitoli precedenti, l'uomo, ammesso che di esso possa essere data una descrizione filosofica appropriata, deve essere pensato come un Io che, oltre ad essere percipiente, è anche un ente dotato di una volontà (qualora non venga egli stesso definito come una volontà singola presente in un ente fenomenico), in grado di determinare in parte, secondo le sue leggi mutevoli, i suoi aspetti fenomenici - tra cui il corpo - che restano comunque legati dalle leggi deterministiche.
2 - I rapporti fra l'Io noumenico libero ed il fenomeno ad esso associato vanno ripensati come una sinergia di leggi deterministiche cui si assommino, operando insieme, forze di tipo indeterministico. Tali rapporti non sono più il frutto di una coercizione subita da una sostanza da parte di un'altra, ma un'azione sinergica di due principî che compartecipano alla formazione dell'evento fenomenico.
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